Comprendere il senso di ogni fenomeno deve passare per la sua storicizzazione: va definito, cioè, nella sua dimensione spazio-temporale.
È come la battaglia navale: B4, una precisa collocazione fra una lettera (il tempo) e un numero (lo spazio). Fatto questo, si può iniziare a ragionarvi su e definirlo: è una portaerei? O un sommergibile? O, forse, un incrociatore? Infine, si passa ad interpretarne il significato: le navi sono state messe tutte vicine, oppure sparpagliate – alla rinfusa o secondo un preciso disegno?
Storicizziamo un ponte: nella dimensione spaziale, ogni ponte è una linea che connette due punti prima sconnessi e crea così un nuovo spazio antropico. In quella temporale, un ponte è una linea di separazione fra un prima – la vita senza quel ponte – e un dopo – la vita con quel ponte.
Quel ponte, di cui si sta ragionando, cioè il Morandi, ha un prima e un dopo; possedeva, in più, delle qualità essenziali, che lo distinguevano nettamente da ogni altro ponte italiano, definendolo precisamente: era stato progettato da uno degli architetti più importanti e noti del tempo; era indispensabile al normale svolgersi della vita quotidiana di una della più aree più popolose, e un tempo produttive, del Paese; era dotato del piglio simbolico della rinascita post-bellica italiana: audace, innovativo e anche bello.
All’alba del secondo anniversario del crollo del Ponte Morandi e al tramonto dell’inaugurazione di quello nuovo, proviamo, come molti, a comporre una lettura del senso che la sua vicenda assume nella storia italiana. Proviamo a farlo senza cadere nel neo-manierismo della “caccia al cattivo” cui, troppo spesso, si abbandonano parte della classe dirigente nostrana e quasi tutti i media – convinti che la trama della vita sia simile a quella di un film western.
Esamineremo dunque tre punti, per noi rilevanti ma nella chiara consapevolezza che molti, e diversi altri, ve ne potrebbero essere: la questione pratica; l’impatto sull’immaginario collettivo; la trama.
La questione funzionale è stata risolta, anche brillantemente: c’è un nuovo ponte – nuovo, sicuro, bello, “firmato” (oggi come allora) da uno dei più importanti architetti italiani, oltretutto un concittadino che si è fatto conoscere e valere nel mondo; e questo, nel Paese dei cento campanili, certo non guasta. Questo, come quel ponte, perciò, possiede un che di distintivo rispetto a tutti gli altri ponti: non è un ponte ma il ponte di Genova e, infatti, non a caso, si chiama così.
Su questo aspetto tre cose, in particolare, appaiono meritevoli di segnalazione critica: la polemica; la spettacolarizzazione; la marchiatura. La polemica: distruggere tutto e tutto rifare, o salvare il salvabile e ricostruire? Nessuno potrà mai dire quale sia/sarebbe stata, l’opzione oggettivamente più opportuna. La spettacolarizzazione: il ponte viene abbattuto con un intervento di “demolizione controllata” in diretta televisiva e l’inaugurazione (oggi come all’epoca del Morandi) è passarella politica ed evento mediatico. La marchiatura: Pistoletti, Calatrava, Piano, sostanzialmente archistar note anche al pubblico dei non addetti. L’impresa: una newco temporanea fatta da aziende italiane, a connotare ulteriormente di tricolore l’opera e l’impresa tutta.
Passiamo al secondo aspetto. Il crollo di un ponte fa notizia perché colpisce l’immaginario collettivo, anche, se non soprattutto, sul piano emozionale e simbolico: estrae dalle sue macerie, e lo diffonde, un sentimento di sfiducia verso ciò che l’uomo ha costruito e verso chi, di questi manufatti, detiene le chiavi; dissotterra l’atavico sospetto verso l’impresa privata e il capitalista, capaci di ogni nefandezza in nome del “Dio-denaro”; spolvera e lucida ogni sentimento di sospetto del governato verso i governanti: quelli là che, nell’ombra, tramano contro la gente – quest’ultima, come in ogni film western che si rispetti, buona per definizione.
Soprattutto, però, il crollo richiama l’attenzione verso il senso più profondo di ogni comunità che desideri avere una vita collettiva, civilmente organizzata: il primato dell’uomo sull’economia; la fiducia reciproca come necessità imprescindibile; la competenza e l’onestà come requisiti essenziali della divisione sociale dei compiti. In parole povere, l’organizzazione civile di una società funziona se e nella misura in cui i propri componenti possono disinteressarsi di problemi e mansioni che loro non svolgono, e lo fanno in piena serenità, sapendo che altri sono deputati a svolgerli e che lo faranno meglio di loro, perché sono preparati a farlo.
Il crollo di un ponte, di quel ponte, perciò, ha portato giù, assieme alle macerie, un bel po’ di capitale di fiducia sociale del Paese. Ogni discorso successivo su appalti truccati e infiltrazioni mafiose, per stare alla ricostruzione e sulle perizie superficiali e menzognere, o sulle manutenzioni al risparmio, per stare alle cause del crollo, appaiono “soltanto” conferme della tesi: in questo Paese non ci si può fidare degli altri. Questo è un guaio serio.
Terzo. La trama, il racconto nel quale il crollo del Morandi s’innesta. La vicenda s’inserisce perfettamente in un racconto che narra la stanchezza di un territorio e dei suoi insediamenti antropici. Gli smottamenti pluviali in Liguria, il crollo di palazzine, qua e là per il Paese – a causa di impianti malfunzionanti, abbandono e abusi edilizi – i cedimenti di strade e viadotti nuovi – a causa di risparmi sui materiali e lavori mal condotti – sono puntate di una medesima trama seriale: quella dell’esaurimento della spinta propulsiva degli anni Sessanta; dell’affievolimento della potenza vitale dei suoi abitanti; del progressivo sgretolarsi dei suoi manufatti. In questa cornice l’immagine sublimemente fissata da Leo Longanesi, di un Paese che «alla manutenzione preferisce l’inaugurazione» si taglia sullo sfondo e sugella la realtà triste e anche squallida, del patrimonio collettivo italiano.
Concludendo, questo nuovo ponte va salutato con calore e soddisfazione, una preghiera per chi non c’è e molto rispetto per i loro cari. Speriamo, anche, di trarne qualche piccola lezione:
– che apparteniamo a un Paese che complica la propria esistenza perché è incapace di darsi e seguire qualsivoglia disegno organizzativo, a ogni livello, grado e ampiezza. Per questo, ogni giorno, il Paese perde qualche grado di civiltà. A nulla vale la considerazione che, a fronte di circostanze straordinarie, l’italiano sa anche rinunciare alla propria natura libertaria: si struttura, obbedisce e fa ciò che deve – e molto bene. Tutto questo, a dispetto del nostro narcisismo, non è un pregio ma un grave difetto collettivo;
– che la fiducia sociale è un ingrediente cruciale della qualità esistenziale del Paese. Questa si basa su divisione dei compiti e aspettative positive: una collettività divide fra i propri componenti i compiti, questi si specializzano e acquisiscono competenza e senso etico specifico del mestiere; ciascuno nutre un’aspettativa positiva sugli altri e perciò può destinare le proprie energie a fare al meglio il proprio compito, sereno sul fatto che gli altri faranno il loro. Se questo binomio si spezza – e a Genova si è spezzato – cade ogni legittimazione, ciascuno sente di dover pensare a sé stesso e ai propri cari e la salute collettiva s’incrina;
– che esiste una parte di popolazione italiana che fa made in Italy di altissimo livello, tecnologico, tecnico e scientifico: l’azienda di Piano progetta in tutto il mondo, perché richiesto a farlo; le aziende che hanno costruito il ponte nei tempi richiesti dalla necessità, lo hanno saputo fare e molto bene; l’Amministrazione pubblica ha regolato sé stessa e orientato gli sforzi all’obiettivo. Tutto questo, oggi, può nutrire positivamente un certo orgoglio nazionale, non elegiaco o scioccamente retorico ma fattivo e concreto, che ricostruisca valore all’idea di competenza (che non si compra ma si sviluppa) e di metodo.
Saprà il cittadino italiano fare tesoro di questa vicenda?