HomeIntervisteTadeusz Rachwal. Precarietà, correggere il sistema delle “bolle” sociali

Tadeusz Rachwal. Precarietà, correggere il sistema delle “bolle” sociali

di
Ida Nicotera**

Precarietà e cultura del pericolo

Il filosofo e sociologo francese Michel Foucault (2008) aveva definito “la cultura del pericolo” un tipo di cultura connaturata al liberalismo. Un sistema quindi dove il pericolo non è percepito come qualcosa di esterno ma di interno, è avvertito costantemente nelle pratiche domestiche quotidiane, nelle esperienze di vita. È proprio da questa riflessione, sviluppata nel Rapporto 2022 della Rete europea SUPI sulla precarietà sociale, che parte l’analisi del sociologo polacco Tadeusz Rachwal*, professore all’Università di Scienze Sociali e Umanitarie di Varsavia, sulla struttura del nostro tessuto sociale e l’arrivo inaspettato del Covid-19. “Vivere pericolosamente”, il motto che secondo Foucault distingue uno degli elementi essenziali del liberalismo, significa che gli individui sono costantemente esposti e condizionati da questa sensazione di paura nella loro vita presente e nella proiezione futura, da una cultura tutta interna che li induce costantemente a costruirsi delle sicurezze soprattutto economiche: «non siamo di fronte a paure di una catastrofe apocalittica, e nemmeno alla paura della morte – spiega Rachwall – ma piuttosto alla paura di una perdita economica, forse di una mancanza di successo».  

Tutto ha la forma di un’impresa

E perché al centro di tutto c’è l’economia? Perché, spiega ancora Foucault, secondo la cultura del liberalismo, le unità di base del tessuto sociale non sono costruite per favorire il contatto diretto tra l’individuo e la natura – un contatto che è estraneo ad ogni logica economica – ma per assumere invece la forma di un’impresa: «che cos’è la proprietà privata se non un’impresa? Che cos’è una casa se non un’impresa? Qual è la gestione di queste piccole comunità di quartiere […] se non altre forme di impresa?». Rachwal amplia ancora di più questa metafora dell’impresa e la applica anche agli individui che, sempre più lontani dal rapporto con la natura, finiscono per diventare come tante imprese individuali, imprese confinanti con altre imprese, in un sistema totalmente economizzato.

Vivere nelle “bolle” la chiusura in se stessi e la fragilità sociale

La società mondiale attuale presenta in modo crescente questa netta distinzione tra il dentro (economia) e il fuori (ambiente naturale); e tutti gli individui, occupati e non, progressivamente coinvolti nella cultura dell’impresa e della connessa sensazione di rischio e pericolo, sono direttamente o indirettamente indotti a partecipare alla costruzione di un grande edificio economico nel quale si rinchiudono, come in tanti appartamenti. La stessa parola – appartamento – richiama proprio il significato di questa separazione. Appartamenti, aggiunge Rachwall, richiamando una immagine del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, che sono come le bolle di una schiuma, tanti mondi a sé, impermeabili l’uno all’altro, che vivono nel proprio spazio chiuso e non condivisibile. La separazione tra una bolla e l’altra esclude ogni tipo di relazione o parentela; le bolle condividono soltanto le membrane contigue e la precarietà che deriva dalla loro fragilità. In questo sistema che si auto potenzia continuamente senza che vi sia una forza esterna, “un fuori”, in grado di guidare razionalmente il tutto, i contatti sono superficiali, la condivisione inesistente, ogni cosa è finalizzata alla cura di sé e della propria bolla piuttosto che dell’altro. La fonte della precarietà diffusa nelle nostre comunità è proprio legata all’affermarsi di questa cultura e processo di vita sociale.

Il terrorismo del Covid

Se il fuori della bolla è visto come il pericolo e il dentro invece come la base della nostra sicurezza, il Covid-19 è arrivato a cambiare questo paradigma. Prima della pandemia, l’aria era vista come un elemento esterno, appartenente alla dimensione del “fuori”. Poi sono arrivate le mascherine, la malattia, la trasmissione e il contagio: l’idea dell’“interno” come garanzia di sicurezza dall’“esterno” è svanita, siamo stati costretti a condividere i nostri spazi con il virus, con quello che percepiamo come un terrorista, o almeno come una creatura simile a un terrorista.

Il racconto di due paure

Sono molti, in effetti, i punti di somiglianza tra il terrorismo e il Coronavirus, analizzati in un articolo sulla pagina web di “European Eye on Radicalization”: “Un Racconto di due Paure: Confronto tra Terrorismo e Coronavirs” (“A Tale of Two Fears: Comparing Terrorism and the Coronavirus”, Marone, 2020). Tra queste somiglianze, troviamo l’aspetto della segretezza, perché i virus sono invisibili, misteriosi per chiunque non sia uno specialista, così sfuggenti da dare inizio a teorie del complotto sulla loro origine. Un’altra somiglianza, ancora più subdola, è la loro capacità di trasformare in paura l’amore e la fiducia per il prossimo: se l’ISIS mirava a diffondere il terrore tra i “crociati” fino a quando “ogni vicino non avrà paura del suo prossimo”, il Covid è andato ad aumentare la precarietà sociale facendoci vedere nella figura dell’altro un possibile veicolo di contagio della malattia.

Correggere la precarietà: comportarsi da congiunti

È possibile resistere in qualche modo a questo processo di crescente precarietà legato al diffondersi dell’“individualismo dell’appartamento” chiuso, della segregazione progressiva nelle “bolle”? A questa domanda il sociologo polacco Rachwall prova a rispondere con due richiami. Il primo ad una filosofa americana, Donna Harawaye al suo appello a “comportarsi da congiunti” (2015), a ripensare profondamente e positivamente la nostra convivenza con i vicini, chiunque essi siano, ad agire superando i legami dei nostri ristretti àmbiti familiari e gruppi sociali per provare a “congiungersi” realmente con gli altri, tutte creature del mondo in cui ci è dato di vivere.

Nomadland: imparare a vivere la vicinanza con gli altri

Il secondo richiamo utile al superamento di un individualismo sempre più precario, Rachwall lo fa al messaggio contenuto nel libro Nomadland di Jessica Bruder, da cui è stato tratto l’omonimo film di Cloé Zhao (2020). Il libro racconta la storia degli abitanti americani i quali hanno scelto di vivere in furgoni, camper, roulotte spostandosi continuamente da un luogo ad un altro; persone che non sono “senzatetto” ma che preferiscono vivere “senza fissa dimora”, un gruppo sociale nomade che esprime una sua idea di libertà, anche dalla cura dello Stato. Individui soli, ma che vivono comunque delle situazioni di vicinanza nei continui incontri nei parcheggi di sosta, incontri casuali ma ricchi di scambi umani. È come la nascita di un spazio sociale nuovo e originale: «sta accadendo qualcosa di grande», secondo Jessica Bruder. E prospetta così la possibilità di una netta correzione della precarietà collegata e diffusa al prevalere del fattore decisivo dell’economia, all’idea fissa della proprietà e del possesso. L’esperienza dei Nomadlad è un segnale, modesto e limitato quanto si vuole, difficilmente teorizzabile secondo Rachwall, ma indica la necessità di assumere un nuovo punto di riferimento nell’esperienza sociale: l’idea e la capacità di vivere la vicinanza con gli altri.    

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*Tadeusz Rachwał, Sociologo,Professore, Università di Scienze Sociali e Umanitarie Varsavia – Polonia. Riferimento: Rete Europea SUPI sulla Precarietà Sociale 2022 (Berlino-Roma). 

**Ida Nicotera, Dipartimento Internazionale dell’Eurispes.

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