Ci si interroga, si dibatte, si argomenta, si obietta e si battaglia da tempo sull’opportunità di una legge che regoli il supposto ‘diritto ad avere figli’ delle coppie omo ed eterosessuali, di uteri in affitto, surrogazione di maternità mediante il mercato di cellule e tessuti umani, di genitori biologici e genitori sociali. Si parla di famiglia forse più come fatto ideologico che non antropologico. C’è chi, consapevolmente, in barba a tanto clamore, dichiara la propria estraneità al tema della genitorialità, si professa orgogliosamente libero di scegliere e autoaffermarsi senza bisogno di procreare.
Il fenomeno ha radici storiche: decidere di non riprodursi è un orientamento emerso già nel 1972, anno della fondazione, a Palo alto in California, dell’ Organizzazione Nazionale dei Non-genitori , una tendenza che non ha tardato a trovare simpatizzanti e poi convinti adepti. Fatto sta che già da oltre trent’anni, negli Stati Uniti e nei paesi angolofoni, si sono formati e imposti all’attenzione generale gruppi di persone dichiaratamente a favore dell’esclusione dei figli dal proprio percorso evolutivo: i movimenti childfree, più radicale, e childless, meno intenzionale e più casuale.
I primi, un gruppo su posizioni estreme, rivendicano il diritto a rifiutare concettualmente le ragioni della procreazione, considerando la prole un fattore di disturbo e impedimento al naturale sviluppo sociale dell’individuo, una limitazione intollerabile della libertà personale che va preservata da vincoli e responsabilità, un inutile motivo di preoccupazione.
Più morbido l’approccio dei secondi, che si legano in rapporti di condivisione e solidarietà per non essere diventati genitori, condizione in alcuni casuale, in altri di rinuncia per vari motivi e fattori o circostanze. Semplicemente, si limitano a vivere una condizione di fatto di cui in ogni caso riconoscono i vantaggi e i privilegi.
In Italia, paese laico ma tradizionalmente sotto forte influenza dell’ambiente cattolico, le cose non vanno tanto diversamente, c’è un fronte all’opposizione, in tema di riproduzione, rispetto al senso comune che considera ancora la famiglia tale, solo se allietata dalla prole. Anche se le percentuali dei ‘non genitori’ per scelta non toccano le due cifre, ancora.
Da una ricerca Eurispes del 2014 su un campione di 2.292 soggetti (51%uomini e 49% donne) emrge che il 78,6% ha figli, il 20,2% non ne ha e l’1,3% si dichiara non intenzionato ad averne. Le ragioni addotte per questa scelta? In maggior parte per mancanza di prospettive e speranze (27,6%), ma anche per insicurezza della condizione economica e rischio di limitazione della libertà personale (entrambe al 20,7%). Solo il 17,2%, invece, non nutre affatto il desiderio di generare un figlio.
Da rilevazioni ISTAT del 2011, è emerso, rispetto al decennio precedente, un incremento di 10 punti percentuali del tasso di famiglie senza figli (31,4%) rispetto a quelle tradizionali, con figli (52,7%). E l’ultimo report sugli indicatori demografici ISTAT, dello scorso anno, dice che in Italia sono nati 488.000 bambini, 15.000 in meno rispetto al 2014: un tasso di natalità che è il più basso dall’Unità d’Italia.
Ritardo nella progettualità di una famiglia per le difficoltà nel percorso di emancipazione dalle famiglie di origine e di affermazione professionale, freni psicologici e materiali dovuti alla crisi economica, politiche di welfare inadeguate, in tema di supporto alla maternità: tante le possibili cause di un processo di denatalizzazione che in Italia resta da molti anni allarmante: basti pensare che la media di figli per donna (italiana e straniera residente) è di 1,37 (dati Eurostat 2014), ben al di sotto della soglia minima stabilita dalla Comunità Europea per scongiurare la natalità 0 (e cioè 2,1, il valore minimo per garantire il normale ricambio della popolazione e la stabilità del suo numero).
Ma se crisi economica e crisi di fiducia sembrano il dato più plausibile e macroscopico per rispondere a questa bassa natalità, resta la variabile della scelta piena e responsabile di restare una coppia senza includere nel proprio percorso biografico un figlio, vivere come nucleo familiare che si autorealizza e auto soddisfa pienamente sia in termini di affermazione individuale, professionale, economica e culturale che di riconoscimento sociale. Non avere figli, permette maggiori agi, più tempo per sé, addirittura, come direbbero i Gink (Green Inclination No Kid – variante eco solidale del fenomeno), meno CO2 nell’atmosfera e meno inquinamento, più spazi verdi dove è minore l’antropizzazione.
“Una società avara di generazione, che non ama circondarsi di figli, che li considera soprattutto una preoccupazione, un peso, un rischio, è una società depressa”, recita la prolusione di Mons. Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI di inizio anno. Parole sagge e illuminate, dette con buona pace di chi rinuncia volentieri a un figlio ma non al tempo libero, al disimpegno e ai divertimenti, che ha molte più possibilità economiche e sembra tutto tranne che depresso.