I nuovi cercatori d’oro: la corsa alla terra. Il caso Africa

Gli effetti distorsivi della globalizzazione hanno inflitto negli ultimi anni duri colpi al nostro comparto agroalimentare. L’adeguamento della produzione agricola mondiale all’evoluzione demografica e alle abitudini alimentari (è il caso della Cina e degli altri paesi a maggior sviluppo economico) rappresenta una enorme sfida per il futuro del Pianeta: basti pensare che, in base alle ultime proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9 miliardi di persone, con 2,5 miliardi di nuove bocche da sfamare. In pratica, è come se ogni anno mediamente arrivasse una popolazione pari a quella italiana, 60 milioni di abitanti, per chiedere la sua razione di cibo quotidiano.

Un dato che evidenzia un fatto spesso non considerato: nella Repubblica Popolare Cinese vive circa il 21% della popolazione mondiale, mentre i suoi terreni coltivabili costituiscono solo il 9% di quelli disponibili sulla Terra. Questo significa che l’approvvigionamento alimentare rappresenta per questo grande paese un problema da affrontare nell’immediato. Niente deve essere sembrato più semplice dell’orientarsi verso i paesi africani, “conquistati” attraverso nuove forme di colonialismo e di dipendenza economico-finanziaria.

Il commercio bilaterale tra Cina e Africa è infatti cresciuto, tra il 1980 e il 2005, di oltre il 50%, passando da 10 a 55 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2006. Nel periodo 2009-2012, la Cina è diventata il più grande partner commerciale dell’Africa, con 198.490 milioni di dollari. Nel 2013, gli scambi tra le due parti hanno raggiunto 210,3 miliardi dollari, con 2.500 aziende cinesi che fanno affari nei campi più disparati. Con un progetto di portare il volume del commercio bilaterale a 400 miliardi dollari entro il 2020.

«Non ingerenza negli affari interni, concezione a “scatola chiusa” dello Stato, utilizzo mirato delle grandi multinazionali di origine cinese per penetrare nei mercati africani e di un sapiente mix fra aiuti umanitari e assistenza economica», sarebbe la ricetta vincente della penetrazione cinese in Africa, secondo Manuela Borraccino.

Pertanto, i governi africani accolgono le compagnie cinesi ridisegnando gli schemi geopolitici che hanno visto per secoli il dominio occidentale nello sfruttamento delle risorse del continente africano. D’altronde, la Cina offre prestiti senza condizioni e lo fa anche in tempi rapidi, due fattori questi fondamentali e difficilmente sostenibili da altri paesi.

Oggi, come evidenziato da Anna Pozzi, questa spartizione avviene attraverso le leggi più subdole, ma non meno aggressive, del mercato globale. Con nuovi e vecchi protagonisti: le ex potenze coloniali, sempre più in affanno e in perdita di influenza politico-economica; gli Stati Uniti, alla disperata ricerca di “amici” africani, meglio se dotati di petrolio; e l’Asia, Cina in testa, ma anche India e Malesia, economie in rapida espansione e con nuove mire egemoniche.

Nell’ultimo decennio, oltre agli scambi commerciali gli aiuti cinesi al Continente Nero sono aumentati esponenzialmente, ma non certo in maniera disinteressata.

Secondo un Rapporto stilato da Coldiretti nel 2011, il giro d’affari è passato da 11 miliardi di dollari nel 2000 a quasi 90 miliardi nel 2009 e si stima che le linee di credito delle banche cinesi nei confronti di Angola, Guinea Equatoriale, Gabon, Nigeria, Repubblica del Congo ammontassero a circa 19 miliardi di dollari nel 2007.

L’estensione di terreni direttamente acquistati per scopi agricoli corrisponderebbe invece a circa 3 milioni di ettari, ossia una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo messi insieme.

La pratica del land grabbing, ovvero l’acquisto massivo di terreni agricoli da parte straniera, è stata condannata dalla FAO perché sottrae risorse primarie ai paesi interessati senza migliorarne le condizioni economiche, le prospettive di crescita e la qualità della vita.

Recentemente a Durban, il primo ministro dell’agricoltura sudafricano, Tina Joemat-Pettersson, ha duramente attaccato «i paesi stranieri che acquistano terre agricole in Africa per assicurarsi il loro approvvigionamento di cibo. Essi sono colpevoli di una nuova forma di colonizzazione».

Ha fatto poi l’esempio del Sudan, in cui «circa il 40% delle terre sono già state vendute a interessi stranieri. Portano la loro manodopera, portano il proprio materiale, le loro sementi, utilizzano il suolo del paese ospite e dopo se ne vanno».

La verità è che sono cambiate modalità e regole, forse più raffinate, ma lo sfruttamento a danno dei paesi più poveri da parte di quelli economicamente avvantaggiati è sempre lo stesso. In ogni modo, l’evoluzione del caso Africa deve essere seguita con attenzione. Non è detto che quello cinese si configurerà semplicemente come uno sfruttamento totale delle risorse di quei territori. I flussi commerciali attivati e le risorse economiche messe a disposizione dei paesi africani – molti dei quali considerati ormai emergenti – potrebbero rappresentare, se ben utilizzati, il volano per la crescita del Continente, con risvolti futuri quasi impensabili e un diverso ruolo per un’area considerata fino ad oggi fanalino di coda all’interno dei scenari globali.

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