La crescente attenzione ai temi del contrasto patrimoniale al crimine ‒ che fa da contraltare alla connotazione sempre più economica delle più moderne forme di criminalità ‒ ha spinto studiosi e operatori ad approfondire le questioni concernenti la restituzione dei proventi illeciti alla collettività.
In linea di massima, il dibattito può essere sintetizzato come segue. Vi è:
– chi preferisce monetizzare il valore dei beni sequestrati e confiscati con finalità meramente contabile e in un’ottica di mercato;
– chi invece destina a fini sociali i beni sequestrati e confiscati anche allo scopo di fornire alla collettività un segnale di virtù civica.
Ve ne è poi una terza, che l’Eurispes intende sostenere, che postula l’idea che l’enorme patrimonio accumulato con le confische debba essere messo a frutto e gestito con criteri manageriali, come si farebbe con una azienda o un insieme di aziende – considerando che i beni confiscati sono di diversa natura e disseminati su territori diversi e spesso distanti tra di loro – facenti capo ad un unico soggetto finanziario. Insomma, una vera e propria holding.
È ormai diffusa, infatti, la consapevolezza che non è sufficiente “confiscare” i beni ai criminali. Si rende, piuttosto, necessario evitare che la ricchezza, che quei beni possono rappresentare per la collettività, vada perduta. Di conseguenza, va promosso ogni sforzo affinché i beni confiscati vengano reimmessi nel circuito “virtuoso” dell’economia legale.
L’evoluzione normativa in tema di gestione e destinazione di beni confiscati è rivolta, quindi, a valorizzare aspetti tipicamente imprenditoriali, professionali ed aziendalistici in grado di assicurare, ove possibile, la sopravvivenza e la produttività a fini sociali dei capitali sottratti ai gruppi criminali.
Il sequestro, la confisca, la gestione e la destinazione dei beni confiscati costituiscono pertanto i momenti più significativi di finalizzazione dell’attività di prevenzione e repressione nei confronti della criminalità economica e mafiosa.
In linea con questa riflessione, non può dubitarsi della portata altamente strategica, in punto di diffusione della cultura della legalità e di scardinamento dei sistemi mafiosi, della destinazione o utilizzazione ai fini sociali proprio di quei beni frutto dei proventi delle attività delittuose che rendevano “influente” e “potente” questo o quel clan malavitoso nelle aree interessate dalla presenza dei sodalizi criminali.
Tuttavia, pur essendo soddisfatti dei grandissimi successi in termini quantitativi, che segnalano la crescita in modo esponenziale del numero delle confische ed il valore quantitativo dei beni confiscati, non risulta allo stato ancora adottata alcuna linea strategica e programmatica per far sì che i miliardi di euro rappresentati dai beni sottratti al crimine organizzato siano destinati ed impiegati per politiche economiche di reale e ragionato sviluppo del territorio.
Gli importi delle confische richiedono, oggi, una complessiva gestione strategica che non soltanto si contrapponga simbolicamente al vulnus creato dalle mafie alle nostre società, bensì generi le condizioni per un riscatto morale ed una tenuta macroeconomica proprio dei tessuti finanziari, imprenditoriali e produttivi interessati negativamente dal fenomeno mafioso.
La confisca rappresenta, così, per gli “uomini d’onore” la perdita di prestigio nel loro stesso ambiente, ben più gravosa della stessa detenzione, perché non consente più loro di esercitare alcuna forma di condizionamento delle realtà socio-economiche tradizionalmente occupate e soffocate dalla presenza delle loro risorse e del loro controllo.
L’esperienza pratico-applicativa ha però evidenziato aspetti di particolare complessità che ingenerano difficoltà nell’azione giudiziaria ed amministrativa in questo settore. Si pensi, a titolo di esempio, alle aziende interessate dal sequestro giudiziario e dalla confisca che, spesso, conservano una spiccata vitalità soltanto fino a quando sono nella disponibilità dei mafiosi ‒ i quali garantiscono alle stesse accesso al credito, commesse, clientela. Questa vitalità, al contrario, in mancanza di una gestione improntata a canoni di imprenditorialità, rischia di scomparire del tutto.
Il salvataggio delle imprese a conduzione mafiosa ‒ industriali, edili e, in particolare, agricole ‒ è, quindi, obiettivo decisivo se si vuole colpire, sia sul piano simbolico sia su quello concreto, un potere mafioso che appare altrimenti pervicace nonostante gli interventi repressivi delle Istituzioni.
L’attività imprenditoriale va, infine, salvaguardata in ogni caso per scongiurare il pericolo della scomparsa dell’azienda e della sua funzione sociale della perdita di posti di lavoro in realtà geografiche già storicamente svantaggiate.