I tre campioni nazionali, Garrone, Moretti e Sorrentino, sono tornati dalla Croisette senza premi di sorta, e questo ha suscitato perplessità vista l’accoglienza della critica e del pubblico riservata a Il racconto dei racconti, Mia madre e Youth. Ma a guardare bene, e segnalando che le sensibilità della giuria hanno legittimamente privilegiato “il sociale” di Dehepan – drammatico e contemporaneo racconto delle disperate migrazioni – va ricordato che i festival del cinema non sono come il calcio, dove giocare bene e non vincere lascia solo l’amaro in bocca.
C’è infatti di che essere più che soddisfatti, perché tre grandi registi nostrani che propongono grandi film sono il segnale di una insperata vitalità culturale in un Paese nel quale importanti ministri hanno recentemente sentenziato che con la cultura non si mangia. E, certo, l’Italia si dibatte tra incrostazioni e difficoltà economiche che mordono la carne viva di ampie fasce sociali, facendoci rimpiangere il nascere e il consolidarsi del “miracolo” che negli anni ’60 ha portato a quel benessere sempre più diffuso che oggi appare un miraggio.
Se riavvolgiamo indietro il nastro scopriamo, però, che una società vitale e vogliosa di crescita, sospinta da speranze e obiettivi individuali e collettivi, non produce solo avanzamenti e beni materiali ma, appunto, “cultura”, che da un secolo a questa parte si agglutina principalmente intorno al cinema e alla musica, i “beni di consumo” delle società di massa. Questo è avvenuto nel secondo dopoguerra e nei due decenni successivi con De Sica, Visconti, Rossellini e, poi, Antonioni, Rosi, Germi, Fellini, Pasolini, Petri, Scola, prima che l’industria circoscrivesse il tutto intorno alla pur nobile commedia all’italiana o ai fenomenali spaghetti-western.
I tre film italiani presentati a Cannes non mimano le atmosfere del neorealismo e i loro registi nulla hanno a che fare con la commedia all’italiana, ma anche per questo sono “grandi” e “nuovi”, e propongono tematiche intime perché universali, e universali perché intime. Sono “senza tempo” perché parlano del tempo che inesorabilmente passa macinando i destini individuali e gli affetti familiari, senza confini perché, a partire dal cast, pienamente immersi in una cornice europea e internazionale.
In primo luogo Youth Di Sorrentino ci appare un vero capolavoro che, forse proprio per questo, non poteva essere incartato e avvolto nelle foglie di una palma; un’opera ancora più matura del recente La Grande Bellezza con cui il regista napoletano lo scorso anno ha riportato l’Oscar in Italia. Se nella Roma attraversata dal bravissimo Servillo- Gambardella aveva dovuto “citare”, quasi per acquistare energia e sicurezza, Federico Fellini, con Youth- La giovinezza Sorrentino si libra in piena autonomia e le “citazioni”, le “radici”, sono più sfumate e metabolizzate, in un mix che fa intravedere sullo sfondo ancora una volta Fellini, ma anche l’Antonioni di Blow-up.
Dopo trent’anni in cui il cinema italiano è stato solo cine-panettoni, commedia di bassa lega o, in alternativa, produzioni di nicchia con poco mercato in cui tanti giovani registi si sono cimentati rimanendo a vita giovani registi, Sorrentino e gli altri campioni nazionali ci dicono che il Paese ha ricominciato a macinare arte e cultura: un buon viatico per costruire un futuro a tinte meno fosche.