I fatti accaduti prima e dopo le ultime elezioni amministrative, con riguardo in particolare alla vicenda dei cosiddetti “impresentabili”, suscitano più di qualche riflessione, e molte – forse troppe – ne sono state fatte, e si continueranno a fare, in varie sedi.
Forse è opportuno, da parte del giurista, formulare qualche considerazione in ordine alla valenza dogmatica di corpus di regole, come quelle contenute nel (famigerato) “Codice di autoregolamentazione in materia di formazione delle liste” emanato dalla Commissione Parlamentare Antimafia nel settembre 2014. Così come tutti i Codici di “autodisciplina”, va premesso, esso non costituisce una fonte del diritto, a meno che non venga espressamente richiamato da norme di rango primario oppure, laddove si debba applicare a situazioni che regolano la vita dei cittadini, non se ne preveda in qualche modo la vincolatività per quell’ambito della “costituzione materiale” che si dovessero trovare a disciplinare.
In altre parole, un Codice di autodisciplina può diventare vincolante solo se i soggetti dai (e per i) quali è redatto – in genere appartenenti a una comunità o a un gruppo sociale ben individuato – decidono che lo diventi per tutti coloro che intendono beneficiare dell’appartenenza a quel gruppo o consesso, con tutte le conseguenze che ne derivino.
È l’esempio classico del Codice di Autodisciplina delle società quotate in Borsa che prevede una serie di regole per le società e i loro organi di governo, orientate alla trasparenza e alla correttezza dei comportamenti sui mercati borsistici. Ma il Codice non contempla nessuna sanzione a fronte del suo inadempimento, se non la circostanza fattuale di trovarsi sul mercato ed essere additati come “non ossevanti” un insieme di regole di natura amministrativa. Sanzione reputazionale, probabilmente più forte di quella legale.
Ancora penso ai Codici di Autoregolamentazione delle imprese, come quello di Confindustria Sicilia, che prevedeva la sanzione dell’espulsione dalla struttura associativa dei soggetti che fossero stati scoperti a pagare il pizzo. Ma si parlò allora di “abusi” proprio perché si paventava una intromissione del privato in vicende giuridiche, la cui sorte era per l’appunto affidata (e non può dirsi diversamente) ad un potere statuale.
Anche qui, comunque, la sanzione “reputazionale”, unica che si possa – ancorchè con qualche forzatura terminologica – definire tale, è quella che è legittimo attendersi da simili decisioni.
Venendo al dunque, il Codice (che chiameremo per brevità “Antimafia”) è ben lungi dal costituire, come dicevamo, una fonte del diritto dotato di autonoma precettività, così come invece il “vero” Codice Antimafia.
Da ciò deriva che a chiederne l’applicazione, proprio perché ad adesione volontaria, non può intervenire nessun Organo dello Stato, se non la stessa Commissione che lo ha redatto, ma sempre in ottica di “moral suasion”. I partiti che lo hanno sottoscritto devono uniformarsi, pena la sola sanzione “reputazionale”, e nulla più. Il problema, qui, è però peculiare rispetto a quello che si pone nella fase di applicazione delle altre forme di autoregolamentazione citate, nonché di tutte quelle della specie. A decidere sulla eventuale “incandidabilità” sono i pertiti, che a loro volta devono seguire norme di legge che impediscono ad un cittadino ritenuto “indegno” di essere inserito nelle liste elettorali. Ma qui scatta il vuoto normativo, che urge colmare. Allo stato, non esistono regole di rango primario che permettono l’esclusione (anzi, la mancata inclusione) nelle suddette liste. La più volte invocata “legge Severino” prevede, al contrario di quanto probabilmente il cittadino medio abbia compreso, che una persona con problemi “giudiziari” possa essere sospesa dall’incarico qualora eletta, ma non vieta la candidatura (e la conseguente elezione) di costei o costui.
A ciò si aggiunga che – come ha ricordato lucidamente Raffaele Cantone – non esiste una legge che fornisca la definizione di soggetti “impresentabili” né tanto meno la prevede il Codice di Autodisciplina della Commissione Parlamentare. La quale – riprendendo ancora Cantone – «è fatta di politici» mentre i processi, come noto, spettano alla magistratura, la quale dovrà accertare ex post (non avendo nemmeno essa possibilità di farlo ex ante) la rispondenza alla legge, e solo a questa, dei futuri (e quelli in carica) amministratori pubblici.