Back reshoring: opportunità per l’Italia

Erano gli anni Sessanta quando, nella compagine dei processi produttivi, cominciava a diffondersi negli Stati Uniti (e nei decenni a venire nel resto dell’Occidente) il fenomeno denominato offshoring, ovvero la delocalizzazione del processo di lavorazione di un prodotto in favore di siti esteri ritenuti più economici.

I paesi d’elezione vennero identificati per tale motivo tra i paesi in via di sviluppo, i paesi dell’Est, la Cina e i paesi del Sud-Est asiatico, dove scarsa considerazione avevano, all’interno delle politiche sociali, le condizioni dei lavoratori, sfruttati e mal pagati. Ma non poteva essere rivolto a questo aspetto sociale l’occhio dell’imprenditore, tra i cui obiettivi troneggia l’imperativo capitalista dell’abbattimento dei costi al fine di massimizzare i profitti e guadagnare una competitività sempre maggiore. Questo impone la globalizzazione. Né tantomeno si prestava troppa attenzione ai posti di lavoro che andavano progressivamente diminuendo in patria per via della delocalizzazione. Sulla bilancia esistevano soltanto due pesi: costo del lavoro da un lato e qualità, efficienza e competenze professionali dall’altro. Inutile dire verso quale lato finiva col pendere.

Non si respirava ancora aria di crisi e l’opportunità di contenere le spese legate al processo produttivo spostandolo all’estero contraddistingueva molte scelte industriali, partendo dalle multinazionali e finendo col coinvolgere imprese di dimensioni più modeste. Non era dunque la ricerca di nuovi mercati la motivazione principale dell’espatrio della produzione ma, al contrario, il perseguimento di utili sempre maggiori sulla base di costi fissi da abbattere il più possibile, nello specifico l’erosione dei costi della manodopera, cui si aggiunga la possibilità di una fiscalità agevolata.

Il rientro delle produzioni all’interno dei paesi di origine fa capolino sulla scena mondiale qualche decade fa, imponendosi tuttavia all’attenzione degli studiosi soltanto da pochi anni, specialmente in seguito alla crisi economico-finanziaria che ha coinvolto l’intero globo.

L’area geografica maggiormente interessata dal fenomeno è rappresentata dall’Europa occidentale (51,6%), seguita dal Nord America (46,8%), in cui sono stati registrati 176 casi (il fenomeno riguarda esclusivamente gli Stati Uniti, con un unico caso annoverato in Canada), mentre marginale risulta il contributo asiatico (1,6%), in cui sono stati censiti soltanto 6 casi: due in Giappone, due in Corea del Sud e due in Taiwan.

Negli Usa è stata una combinazione tra incentivi pubblici (l’amministrazione Obama ha accordato un beneficio fiscale del 20% alle aziende che tornano a produrre in casa) e crollo dei costi relativi all’approvvigionamento energetico a convincere molti imprenditori a fare rientro nel loro paese.

Il back reshoring vede l’Italia al primo posto, con 79 casi registrati, tra i paesi europei interessati dal fenomeno, seconda a livello mondiale solo agli Stati Uniti: il 40,7% dei 194 casi europei di rimpatrio delle produzioni riguarda proprio il nostro Paese, che si colloca davanti a Germania (20,1% con 39 casi), Regno Unito (19,1% con 37 casi) e Francia (11,9% con 23 casi), cui seguono sporadici e isolati casi nelle altre nazioni europee (8,2% con un totale di 16 casi).

Secondo lo studio condotto da Uni-Club, consorzio universitario formato da diversi atenei italiani (Catania, L’Aquila, Udine, Bologna, Modena-Reggio Emilia) sarebbero poco meno di un centinaio gli imprenditori italiani di ritorno tra il 1997 e il 2013.

Dove erano state localizzate le produzioni che oggi tornano indietro?

Circa i due terzi (60,3%) rientrano dalla Cina, soprattutto le produzioni attinenti al sistema moda, meccanica ed elettromeccanica, mentre la restante fetta appartiene al resto dei paesi asiatici (12,5%), all’Europa dell’Est e ai paesi nati dalla disgregazione dell’Urss (11,1%), all’Europa occidentale (7,9%), all’America Centrale e all’America Latina (5,1%). Un’esigua minoranza torna invece a produrre in patria dopo aver delocalizzato la produzione in favore del Nord Africa e del Medio Oriente (1,6%), del Nord America (1,2%) e dell’Oceania (0,2%).

Le scelte principali alla base di tali decisioni hanno a che fare con tutta probabilità con la volontà di prendere le distanze da sistemi politici instabili e imprevedibili, lontani da quelli occidentali, con la necessità di abbattere i costi logistici legati ad assicurazioni e trasporti, senza contare che il costo della manodopera nei paesi “abbandonati” sta iniziando a salire, per via dell’effetto di politiche sociali che riconoscono un nuovo status al lavoratore, meno sfruttato, più umanizzato, con un salario superiore rispetto al passato, in sintonia con una maggiore consapevolezza dei diritti umani e dei lavoratori.

Nonostante il fenomeno non abbia contorni ben nitidi nel nostro Paese e non raggiunga le dimensioni americane, negli ultimi anni, seppur con un’andatura oscillante, sta riuscendo a ricevere consensi che lasciano intravedere un futuro in ripresa.

La gran parte del fenomeno interessa il settore tessile e calzaturiero (43%), settore per eccellenza del Made in Italy, seguito da quello elettrotecnico ed elettronico (18,6%), dall’industria dell’automobile (5,8%), dalla produzione di mobili e componenti d’arredamento (5,8%), dal settore biomedico (4,7%), salute e benessere (4,7%) e meccanico (4,7%). A seguire troviamo altri settori merceologici per i quali è risultato conveniente abbandonare i paesi esteri di produzione in favore dell’Italia: il settore elettrico (3,5%), la produzione di macchina agricole (3,5%), il settore alimentare (1,2%), farmaceutico (1,2%), l’industria navale (1,2%), tessile (1,2%) e la produzione di giocattoli (1,2%).

Dal settore manifatturiero dell’industria elettrotecnica ed elettronica, il secondo in Italia maggiormente interessato dal fenomeno della rivalutazione di competenze e talenti nostrani come elemento chiave del processo produttivo (nonostante il costo del lavoro sia ancora alto da sostenere, esso risulta inferiore alla media del Paese nella manifattura di alta qualità), arrivano evidenti le motivazioni a sostegno del back reshoring: il minor controllo della qualità della produzione all’estero (33,3%), la necessaria vicinanza ai centri italiani che si occupano di innovazione, ricerca e sviluppo (25%), i minori costi della logistica in Italia rispetto ai siti produttivi precedentemente delocalizzati in altri paesi (22,2%), della produzione (22,2%) e del lavoro (11,1,%).

Senza dimenticare la richiesta sempre crescente del mercato verso i prodotti la cui filiera risulti principalmente localizzata in Italia e l’attenzione alle agevolazioni doganali presenti all’interno dell’Unione europea.

Interrogate sugli aspetti che avrebbero maggior peso sulla scelta di riaprire gli stabilimenti in Italia, le aziende hanno riposto le proprie speranze su: un auspicabile beneficio fiscale frutto della riduzione del cuneo fiscale (28,8%), la semplificazione della componente burocratica (26,3%), la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e sviluppo (17,9%), la diminuzione dei costi per l’approvvigionamento energetico (15,4%) e la tutela del marchio Made in Italy (9,6%).

Nuovo lustro per l’Italia del futuro?

Il reshoring sembra contraddire le logiche della globalizzazione, facendo emergere nel panorama produttivo una tendenza opposta a quella generale. Sono state chiamate “imprese salmone” quelle che, nuotando in senso opposto, risalgono la corrente da Est verso Ovest, riportando in patria la produzione dopo che le aspettative sulla delocalizzazione sono state in tutto o in parte deluse e che potrebbero segnare una seconda fase all’interno dell’era della globalizzazione.

Dovremo aspettare ancora qualche tempo per scoprire se il fenomeno si estenderà su larga scala oppure resterà appannaggio di singole strategie imprenditoriali. Nel frattempo, prendiamo atto della vitalità del fenomeno e guardiamo avanti con la speranza di poter frenare un’ulteriore fuga delle imprese.

La partita delle politiche industriali che potrebbero favorire ulteriori rientri si gioca tutta sui finanziamenti pubblici, sulla detassazione degli utili reinvestiti nel campo della ricerca, sulla valorizzazione del know how tecnologico e del Made in Italy, sull’innovazione organizzativa, sul miglioramento delle condizioni di lavoro, sulla semplificazione burocratica, sull’abbattimento della pressione fiscale e sulla riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti e dei processi.

Si tratta dunque di scelte che, pur non lesinando sulla componente economica, mostrano di essere attente alla componente qualitativa e sociale dei fenomeni produttivi, su cui si impongono i controlli di qualità.

Una volta dimostrata l’applicabilità del fenomeno del reshoring in Italia, tornare a produrre nel nostro Paese si impone come un imperativo per risollevare le sorti di una nazione che fonda il suo zoccolo duro sull’industria manifatturiera (oggi incentrata sul cambiamento e sull’innovazione), settore senza il quale la new economy basata sulla finanza e sui servizi, da sola, non può farcela a vincere la sfida italiana lungo il cammino della ripresa.

Come dimostra il confronto con l’America, servono politiche a sostegno del Made in Italy, per dare il giusto valore alla qualità delle produzioni nostrane, capaci da sole di reggere il confronto con i competitors stranieri.

Riavvicinare le imprese ai paesi di provenienza vuol dire anche abbreviare i tempi di risposta alle esigenze del mercato, essere più flessibili e competitivi ma non meno puntuali, guadagnare in tutto ciò che aggiunge valore ad una produzione.

Spostare e riorganizzare le unità produttive non è certo cosa semplice ma se l’Italia, senza nessun incentivo, è riuscita a far tornare a casa non pochi imprenditori, possiamo ipotizzare che in presenza di benefici pubblici possano essere in molti a far incrementare il fenomeno.

 

 

 

 

 

 

 

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