Abbiamo intervistato sul conflitto in atto nel Tigrai Emilio Drudi, già Direttore de Il Messaggero di Roma e Lazio, membro del Comitato Nuovi Desaparecidos e autore del libro Fuga per la vita (Simple ed.). Da anni, Drudi approfondisce i problemi dell’immigrazione occupandosi, in particolare, della tragedia dei profughi provenienti dal Sud del mondo, con una serie di servizi giornalistici e inchieste nazionali e internazionali.
L’intervista è disponibile anche in inglese
The Tigray conflict: a civil and regional war that risks spreading
Esistono conflitti che sembrano secondari o sottovalutati dalla stampa nazionale e dal relativo dibattito pubblico e politico. Tra questi, quello attualmente in corso nel Tigrai. Come nasce e cosa sta accadendo in questa regione?
Secondo Addis Abeba quella in corso in Tigrai non sarebbe neanche una guerra. Si tratterebbe “solo” di un’operazione interna di ordine pubblico, per assicurare alla giustizia la leadership del Fronte Popolare di Liberazione (Tplf) che si sarebbe messo fuori dalla costituzione, minacciando l’integrità stessa della nazione etiopica. In realtà si tratta di una guerra insieme civile e regionale. Civile perché combattuta, su fronti aspramente contrapposti, da eserciti entrambi etiopi: quello federale, affiancato dalle milizie amhara e le truppe del Tplf. Ma, nello stesso tempo, regionale, perché un ruolo fondamentale è stato svolto fin dall’inizio dall’Eritrea – cioè uno Stato estero e, dunque, estraneo ad un’operazione interna di ordine pubblico – che, evidentemente d’intesa con Addis Abeba, a partire dal 2 novembre 2020 ha condotto l’attacco al Tigrai da Nord, occupando una vasta fascia di territorio che, da Ovest ad Est, va da Humera (al confine con il Sudan) fino ad Adigrat (la seconda città del paese, sulla strada per Asmara) spingendosi verso Sud, fin oltre Axum e e la stessa Adigrat, tanto da arrivare alle soglie di Macalle, la capitale. Il bilancio è spaventoso: dopo cinque mesi, si parla di oltre 50mila morti, 75mila profughi fuggiti in Sudan, circa 2 milioni di sfollati interni, 4,5 milioni di persone che non hanno di che vivere, distruzioni enormi e il pesante sospetto che stupri e famevengano usati come “armi” per piegare la resistenza della popolazione.
Il casus belli è stato l’attacco delle truppe del Tplf al comando dei reparti militari federali stanziati in Tigrai. Per Addis Abeba sarebbe la prova della volontà della leadership tigrina di smantellare la nazione etiopica, nella prospettiva di un grande Stato indipendente del Tigrai. Per il Tplf si sarebbe invece trattato di un’azione volta a prevenire il soffocamento dell’autonomia tigrina attraverso uno stretto controllo militare dello Stato regionale ad opera dell’esercito federale. Ma, questo, è solo l’atto finale. Le cause appaiono più remote: risalgono al “progetto di paese” che emerge dalla politicacondotta dal Premier etiopico Abiy Ahmed (di etnia oromo e amhara), salito al potere nell’aprile del 2018 al posto deldimissionario Hailemariam Desalegn, dopo quasi trent’anni di governo guidato dal Tplf, nonostante il Tigrai rappresenti solo il 6% della popolazione etiope totale. Abiy è stato scelto come Premier probabilmente anche per la sua origine oromo, in modo da dare un segnale di pacificazione nei confronti, appunto, dell’etnia oromo, la più numerosa dell’Etiopia ma sempre esclusa dalla “stanza dei bottoni” e che, spinta da questa emarginazione, sta conducendo da anni una lotta sempre più dura nei confronti del governo centrale, subendo arresti, persecuzioni, condanne sommarie, uccisioni. Da Premier, Abiy, ha avviato lo smantellamento del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (Eprdf), la coalizione su base etnico-regionale nata dalla resistenza vittoriosa contro il Derg del colonnello Mengistu edominata, di fatto, dal Tplf. Al suo posto ha creato un nuovo movimento, il Partito della Prosperità, come premessa di una politica accentratrice che, se attuata, porterebbe al conseguente, progressivo svuotamento della costituzione su base etnico-regionale varata, all’indomani della vittoria contro il Derg, sotto la spinta di Meles Zenawi, il leader storico del Tplf, Premier del governo federale dal 1995 al 2012. Forte anche del successo delle aperture e delle riforme promossefin dall’aprile 2018, in particolare: la revoca dello stato d’emergenza che, sia pure con brevi interruzioni, durava da anni; la liberazione dei prigionieri politici; l’invito ai leader dell’opposizione in esilio a rientrare in patria; l’accordo con il Fronte di liberazione dell’Ogaden per porre fine ad un conflitto interno durato decenni; la pace con l’Eritreaper chiudere la ventennale guerra scaturita da una controversia di confine intorno al villaggio di Badme – il progetto di Abiy ha avuto sempre più spazio, tanto che le varie componenti regionali dell’Eprdf si sono in gran parte sciolte nel Partito della Prosperità. L’unico a resistere, in nome della costituzione etnico-regionale, è stato il Tplf (i cui ministri sono stati così esclusi dal governo), senza dimenticare la ripresa delle proteste (di nuovo affrontate dalla polizia con violenza estrema e raffiche di arresti) della componente oromo, delusa da quella che ritiene una lunga serie di impegni mancati da parte di Abiy per una diversa ripartizione del potere, tenendo conto delle autonomie locali e regionali.
La svolta si è avuta con il rinvio delle elezioni federali fissate per l’agosto 2020 che avrebbero dovuto misurare, per laprima volta, la reale forza delle varie componenti etnico-politiche dell’Etiopia dopo l’avvento di Abiy. Quest’ultimo, ha giustificato il rinvio con i problemi causati dalla pandemia da Coronavirus. Il Tplf ha contestato che quello del Covid era solo un pretesto per avere il tempo di rafforzare il Partito della Prosperità e – ignorato il divieto del governo centrale, asserendo che la sua autorità era “decaduta” dopo il rinvio della scadenza elettorale nazionale di agosto – ha deciso di tenere comunque, nel mese di settembre 2020, le elezioni per l’assemblea del Tigrai, appellandosi all’autonomia regionale. Elezioni che, pur definite prive di fondamento legale dagli uffici elettorali federali, si sono risolte con la netta vittoria del Tplf, cui sono andati 152 seggi contro i 38 appena dell’opposizione. Entrato in rotta di collisione con il Tplf, Abiy ha trovato un “alleato naturale” nella dittatura eritrea di Isaias Afewerki, che da sempre considera il Tplf il suo principale nemico, primo responsabile dell’isolamento internazionale che ha fattoper anni dell’Eritrea uno “stato paria” totalmente militarizzato, specie dopo gli avvenimenti seguiti alla guerra per Badme, costata alle due parti circa 100mila morti tra il 1998 e il 2000 e poi portata avanti da una condizione di “non guerra-non pace” durata fino all’accordo promosso da Abiy nel giugno-luglio 2018. Quell’accordo che ha portato Abiy a conseguire il Nobel per la Pace 2019. Si sono fusi, in sostanza, grossi interessi convergenti: l’eliminazione del principale ostacolo interno per Abiy; la rivalsa contro il “nemico di sempre” per Isaias Afewerki, probabilmente con l’idea di poter così giocare un ruolo diverso nel Corno d’Africa, a livello internazionale, forte anche dell’apertura di credito concessa da varie cancellerie occidentali al suo regime dopo la pace con Addis Abeba. L’attacco tigrino al comando militare settentrionale dell’esercito federale appare, dunque, solo come “il pretesto”: la guerra contro il Tigrai era già nell’aria da tempo, e molti oppositori della dittatura eritrea, anzi, ritengono che la strategia sia stata impostata nei primi mesi dopo la firma di pace tra Addis Abeba e Asmara. Circola con insistenza, in particolare, la voce del disegno (forse concordato fin dall’estate 2018) di ristabilire una federazione Etiopia-Eritrea come prima della lunga guerra di indipendenza (1961-1991). In sostanza, il progetto di uno stato federale unico, guidato da Abiy e Afewerki, che per essere realizzato richiederebbe la rimozione del Tplf, sicuramente contrario e in grado di creare grossi ostacoli come partito leader di un Tigrai forte e autonomo. E forse proprio questo convergere di interessi a “cancellare il principale nemico comune” potrebbe spiegare, almeno in parte, la ferocia con cui è stata condotta la guerra.
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Recentemente si è parlato molto della strage di Axum del 28 e 29 novembre scorsi. Che cosa è accaduto in quella città?
Questo terribile massacro prova la ferocia estrema di tale guerra. Axum è uno dei simboli dell’Etiopia e, in particolare, del Tigrai. Lì si è sviluppato l’impero plurisecolare che governava gran parte dell’Africa Orientale. Lì ci sono siti storici e religiosi importanti come il Parco degli Obelischi e il complesso della Cattedrale di Santa Maria di Sion dove, secondo la tradizione, viene conservata l’Arca dell’Alleanza portata da Israele in Etiopia dal Negus Menelik I. L’occupazione da parte delle truppe etiopiche ed eritree, nella seconda metà di novembre, ha creato un forte stato di tensione, tanto più che, secondo diverse testimonianze, aleggiava la minaccia di prelevare l’Arca Santa per trasferirla a Bahir Dar, sul lago Tana (zona amhara). Forse, proprio per questo, intorno al 27 novembre, c’è stato un contrattacco delle truppe del Tplf a cui si sono uniti alcuni abitanti del posto. La rappresaglia che ne è seguita, ad opera dei reparti eritrei di occupazione, è diventata un massacro che ha raggiunto il culmine il 28 e il 29 novembre. Su questa ricostruzione concordano tutte letestimonianze: i racconti di alcuni scampati, le inchieste condotte da Amnesty e da Human Rights Watch, ma anche da un organismo legato allo stato federale come la Commissione etiopica per i diritti umani. Nel suo rapporto preliminare la Commissione parla di almeno 100 vittime. Tutti gli altri dossier di oltre 700: molte “giustiziate” nella zona sacra dellaCattedrale, molte altre uccise a freddo in città, strada per strada, casa per casa. Senza contare la zona rurale circostante, dove si conterebbero altri 700 morti.
Sono intervenute e come le Nazioni Unite e le organizzazioni che si occupano di diritti umani?
C’è da dire che le Nazioni Unite si sono mobilitate subito, in particolare attraverso organismi presenti in Etiopia onel Corno d’Africa, come l’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr), l’Ufficio per gli affari Umanitari (Ocha) oquello per le vittime di violenza sessuale nei conflitti. I primi, dettagliati rapporti che hanno rotto l’embargo assolutosulle notizie e il blackout totale delle comunicazioni da e per il Tigrai imposto da Addis Abeba, sono venuti proprio daquesti organismi. Lo stesso può dirsi per la Croce Rossa Internazionale e per organizzazioni come Amnesty o HumanRights Watch, Medici Senza Frontiere. Proprio sulla base di questi interventi e questi rapporti è stata proposta alConsiglio di Sicurezza dell’Onu un’inchiesta internazionale indipendente, così come sollecitato fin dai primi giorni diguerra da Unhcr e Ocha. La proposta, però, è stata respinta dal veto della Cina e della Russia. Buona parte di questestesse organizzazioni hanno denunciato, inoltre, il blocco totale dei programmi di aiuti umanitari per le popolazioni dellezone travolte dalla guerra: su loro insistenza qualche spiraglio si è aperto, anche se buona parte del territorio, specie nelle zone rurali, è ancora off limits.
Dinnanzi alla denuncia di crimini di questa natura, l’Unione europea e l’Italia come stanno intervenendo?
Quello degli Stati Uniti guidato dal presidente Biden è stato il governo che si è mosso di più e con più decisione. Anche sulla base dei rapporti Onu o dell’Ufficio Usa per la Pace, Washington ha denunciato le violenze inammissibili che stanno emergendo, incluso il sospetto di pulizia etnica, ed ha chiesto il ritiro immediato dal Tigrai delle truppe eritree e delle milizie amhara, dando forza a questa presa di posizione con l’invio di un proprio osservatore, il senatore Chris Coons, ad Addis Abeba. L’Unione europea si è associata alla richiesta di riportare oltrefrontiera l’esercito eritreo, e hasospeso una serie di finanziamenti e contributi al governo etiopico. Bruxelles si muove, insomma, in sintonia con Washington. Sulla stessa linea si sono posti i ministri degli esteri del G7. Non risulta, però, che l’Italia abbia fattosentire più di tanto la propria voce. Eppure, come ex potenza coloniale nel Corno d’Africa, avrebbe potuto e potrebbe svolgere un ruolo importante. Specie nei confronti dell’Eritrea, dove la presenza italiana è più antica e dove Roma haaperto da almeno una decina di anni una strana “linea di credito” nei confronti del regime di Afewerki, rafforzandola dopo la firma della pace tra Asmara ed Addis Abeba: il Premier Giuseppe Conte si è fatto vanto di essere stato il primocapo di governo occidentale a condurre una missione di Stato in Eritrea all’indomani della fine della guerraventennale per Badme, mentre pochi mesi dopo la Viceministra degli Esteri, Emanuela Del Re, ha guidato un’altra visita ufficiale ad Asmara, con al seguito i rappresentanti di circa 80 aziende italiane. Ecco, visto che buona parte dei crimini denunciati sono attribuiti alle truppe eritree, forse Roma avrebbe potuto utilizzare quella “linea di credito” per esercitare una certa pressione su Asmara. Ad esempio, per sollevare come inderogabile la questione dei diritti umani: basti pensare ai tanti rifugiati rimpatriati sotto scorta dai soldati eritrei dopo averli catturati nei campi di Shimelba ed Hitsats. O, ancora, per porre l’esigenza di fare chiarezza su quanto è accaduto in Tigrai, a sostegno dell’inchiesta internazionale proposta all’Onu. Tanto più che il fuoco acceso in Tigrai potrebbe estendersi a buona parte del Cornod’Africa.
Esiste il rischio che il conflitto si allarghi davvero?
Nella situazione che si è creata questo pericolo c’è. È emblematico, ad esempio, il conflitto di confine che, praticamente dall’inizio della guerra in Tigrai, si è acceso tra l’Etiopia e il Sudan nel triangolo di Fashanga. Ci sono già stati scontri a fuoco e vittime. Sembra un domino con tante pedine pronte a cadere. Negli ultimi tempi, ad esempio, la Somalia si è molto avvicinata all’Etiopia e all’Eritrea: cerca forse sostegno e alleati contro il Kenya, con cui rischia di arrivare ai ferri corti per la questione del Somaliland, per la crescente contesa sui confini meridionali e per la definizione delle acque territoriali nell’Oceano Indiano, dove c’è un enorme campo petrolifero offshore? Si è parlato a lungo, in pienaguerra, di consistenti reparti militari somali mandati ad addestrarsi in Eritrea ed è sorto il sospetto (in verità subito smentito sia da Asmara sia da Addis Abeba) che almeno una parte sianostati schierati contro il Tplf. Potrebbe rientrare in questo contesto, in funzione anti-somala da parte del Kenya, la minaccia di chiudere gli enormi campi di Dadaab e Kakuma e di spingere verso la vicina Somalia gli oltre 410mila profughi presenti, in maggioranza fuggiti proprio dalla Somalia (ma anche da Etiopia, Sud Sudan, Uganda, eccetera). Sarebbe un colpo tremendo per l’intera Africa Orientale ma, soprattutto, per Mogadiscio. Né va assolutamentedimenticata la spada di Damocle del conflitto per l’uso dell’acqua del Nilo tra Etiopia da un lato, Sudan ed Egitto dall’altro, in seguito alla costruzione della nuova grande diga in territorio etiopico, regione del Benishangul-Gumuz, a30 chilometri dalla frontiera sudanese.
In questa luce, l’Italia e la Ue che cosa dovrebbero fare per cercare di gestire il flusso di profughi in fuga dal Tigrai e da molti altri contesti di guerra, di crisi ambientale, economica o sociale nel mondo?
Partiamo dal Tigrai. Negli ultimi mesi i rifugiati arrivati in Sudan dall’Etiopia sono circa 75mila, in massima parte dalTigrai, ma alcune migliaia anche da altre tormentate regioni: Oromia, Gumuz, eccetera. Il punto è porre fine alla guerra con una pace giusta, incentrata su una grande operazione di verità e giustizia, che consenta ai profughi di rientrare e allontani lo spettro di quel senso di vendetta e rivalsa che sembra alla base di questa guerra. Non sarà facile, perché le violenze emerse sono altrettante mine sulla via della pacificazione. Ma non c’è altra strada: la comunitàinternazionale deve usare tutta la sua influenza e capacità di mediazione per portare il popolo tigrino e le altre etnie ad imboccarla con convinzione e lealtà, prima ancora che il governo federale e il Tplf, trovando la forza di superare i torti reciproci del passato in vista di un futuro migliore. Mi piace pensare, su questa scia, a un “manifesto federale” per l’intero Corno d’Africa. Può sembrare un sogno irrealizzabile, vista la profonda crisi attuale nella regione. Ma i grandi progetti nascono spesso proprio dalle grandi crisi. Quanto ai profughi/migranti, più in generale, non si troverà mai una soluzione continuando a considerarlo un problema di emergenza e sicurezza. Più di 80 milioni di rifugiati, tanti ne ha censiti l’Unhcr nel 2020, e i milioni di persone in fuga da crisi economiche e sociali, da disastri ambientali, dalla miseria e dalla mancanza totale di prospettive per il futuro, non sono un’emergenza: sono un problema strutturale e come tale va affrontato. Si tratta, in estrema sintesi, di cambiare la politica del Nord nei confronti del Sud del mondo. Si sente dire spesso: «Anziché accoglierli i migranti vanno aiutati a casa loro». Ecco, per aiutarli “a casa loro” cominciamo a non sfruttarli a casa loro. Questo è il primo passo per una politica Nord-Sud diversa. È un percorso lungo e difficile, ma non credo ce ne siano altri. E intanto, per chi è già o si metterà in fuga, va radicalmente cambiata la politica migratoria europea. Finora al centro sono stati messi non i migranti, ma come non farli arrivare. A qualsiasi costo. Al centro vanno invece messe le persone e i loro diritti.
*Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore Eurispes.