Una Conferenza per il futuro dell’Europa

sud e coesione

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A Conference for the Future of Europe

 

I Presidenti del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione hanno annunciato l’intenzione di convocare una conferenza per raccogliere pareri e proposte dei cittadini e, in particolare, dei giovani, su come “plasmare il futuro del progetto europeo”. L’iniziativa richiama quella, per vari versi analoga, della Convenzione incaricata nel 2001 di elaborare una “Costituzione per l’Europa”. Da quanto possiamo arguire dal testo della Dichiarazione congiunta dei tre presidenti, il loro progetto sembra proporsi – saggiamente – obiettivi formali meno ambiziosi, e di realizzarli con modalità meno cariche di esposizione mediatica. La decisione di dare il titolo di “Costituzione” al trattato prodotto dalla Convenzione per migliorare la funzionalità dell’Unione europea, la sovraesposizione mediatica delle modalità della Convenzione e l’enfasi posta dagli organizzatori sui suoi risultati, sono state probabilmente le principali cause, anche se non le uniche, del rigetto di quel trattato nelle consultazioni popolari tenutesi nel 2005 in Francia e nei Paesi Bassi. Nelle opinioni pubbliche d’Europa si erano infatti generati profondi malintesi circa l’interpretazione da dare alla portata del trattato. Quest’ultimo non istituiva una costituzione per uno stato federale che non esisteva ancora, non creava il super-stato europeo e non annullava le identità statuali nazionali, come molti cittadini – non solo in Francia e nei Paesi Bassi – erano stati indotti a credere. Si limitava a codificare i trattati preesistenti, apportandovi modifiche in senso federale significative, ma certamente non decisive, per quanto riguarda la natura non ancora pienamente statuale del processo di integrazione. Dopo il fallimento del “Trattato Costituzionale”, la sua sostanza è stata salvata dal Trattato di Lisbona del 2007, che ha laboriosamente ripreso la maggior parte delle modifiche in esso contenute per inserirle – a pettine – nei preesistenti trattati europei. Per comodità di consultazione, il risultato di questo lavoro è stato poi fuso dai giuristi nell’edizione dei “Trattati consolidati dell’Unione europea”.

Rilanciare il progetto di integrazione in Europa alla luce delle sfide vecchie e nuove

Fatta questa premessa di metodo per mettere in guardia dal non ripetere fughe in avanti mediatiche e per richiamare l’attenzione sull’esigenza di valutare attentamente il potere evocativo delle parole prima di utilizzarle, l’iniziativa delle tre Istituzioni è certamente molto opportuna. Lo è in particolare in questo momento, durante il quale si è, finalmente, manifestata la volontà di alcuni paesi membri e delle Istituzioni europee di rilanciare il progetto di integrazione alla luce delle sfide, vecchie e nuove, alle quali l’Europa è attesa e delle aspettative dei cittadini. Queste attese vanno registrate e tenute in conto ai fini delle azioni concrete da intraprendere. Obiettivi molto rilevanti per la sicurezza e il benessere dei cittadini e la difesa dei valori europei – e iscritti da tempo nei trattati – rimangono, in buona parte, inattuati, per mancanza di volontà politica dei governi e/o di strumenti giuridici adeguati previsti nei trattati stessi. A queste due categorie appartengono, sia pure in misura diversa, la politica economica, la politica dell’immigrazione, la politica estera e di sicurezza, la politica di difesa.

La capacità di difendere i valori dell’Europa dipende dalla volontà dei cittadini dell’Ue

L’unione economica e monetaria è ritenuta un obiettivo costituente del progetto europeo, come logica derivazione del mercato comune, sin dal Vertice dell’Aja del 1969. L’unione monetaria è stata realizzata con un assetto istituzionale compiutamente federale dal Trattato di Maastricht del 1992: l’Euro circola come moneta comune e unica dal 2002 tra i paesi che vi aderiscono; è emesso dalla Banca Centrale Europea, la quale definisce la politica monetaria della zona Euro. A causa delle resistenze nazionali emerse a Maastricht, la politica economica, di bilancio e fiscale non è stata affidata a istituzioni federali, ma è rimasta di competenza dei singoli paesi membri. Il coordinamento a livello europeo previsto dal trattato si è rivelato insufficiente, nonostante i progressi fatti negli ultimi anni, per assicurare uno sviluppo economico armonioso in tutta l’Europa e fare fronte a shock endogeni ed esogeni. Un passo cruciale in avanti è stato compiuto con la decisione del luglio del 2020 di dare una più significativa consistenza al bilancio comune e di dotare l’Unione della capacità di indebitarsi al di là delle risorse proprie. È quello che fanno tutti gli Stati nazionali per finanziare le spese che ritengono indispensabili ma che superano l’ammontare delle imposte raccolte. Ulteriori, importanti progressi, potrebbero essere conseguiti se fossero adottate le valide proposte presentate negli scorsi anni dalle Istituzioni e da alcuni paesi membri per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche nazionali senza modificare il trattato. Quest’ultimo prevede, infatti, già la regola della maggioranza in seno al Consiglio per l’adozione delle decisioni in materia di politica economica e di bilancio. Quella che è mancata finora è la volontà politica di dare compiuta attuazione a quanto previsto dal Trattato. Tuttavia, anche un coordinamento rafforzato delle politiche economiche non eliminerà le distorsioni commerciali e produttive tra i paesi membri, senza l’armonizzazione dei livelli di fiscalità: armonizzazione sinora impedita dalla regola dell’unanimità prevista per l’adozione delle decisioni ad essa relative. Si rende quindi necessaria una modifica del Trattato.

Analoghe considerazioni valgono per la politica sociale, che è rimasta parzialmente inattuata anche per quelle parti che non richiedono l’unanimità. Mentre la politica dell’immigrazione è rimasta sostanzialmente ferma al palo, nonostante quanto previsto dalle disposizioni del Trattato per la sua attuazione: disposizioni che  includono la regola della maggioranza in seno  al Consiglio. Sia per la politica sociale che per quella dell’immigrazione è certamente mancata la volontà politica dei Paesi membri.

Politica estera di sicurezza e di difesa in Europa

Veniamo ora alla politica estera e di sicurezza e alla politica di difesa. Va premesso che è illusorio immaginare una “politica estera comune” fino a quando l’Unione europea non avrà assunto in questa materia un assetto compiutamente federale: fino a quando, cioè, i paesi membri non avranno deciso di affidare la propria politica estera a Istituzioni europee (analogamente a quanto hanno fatto in materie quali il mercato interno, la politica commerciale, la politica della concorrenza e la politica monetaria). Sono concepibili, tuttavia, e sono state concepite e attuate – con risultati variabili – specifiche iniziative di politica estera. L’esperienza ha rapidamente messo in evidenza l’estrema difficoltà per il Consiglio di prendere decisioni impegnative e tempestive, dato che queste decisioni devono raccogliere l’unanimità dei paesi membri. Anche per le decisioni di politica estera è indispensabile adottare la regola della maggioranza se l’Unione europea intende svolgere il ruolo internazionale che le spetta. Più in generale, è maturato da tempo il momento di abolire la regola dell’unanimità in tutti gli articoli del Trattato per i quali è ancora prevista. È utile ricordare che il mercato interno ha potuto essere realizzato solo dopo che la regola della maggioranza è stata introdotta in questa materia dall’Atto Unico del 1987. Quel trattato ha tra i suoi molti meriti anche quello di aver avviato il processo graduale di riduzione dei casi di decisioni all’unanimità. Il passaggio alla maggioranza in politica estera richiede uno straordinario sforzo di volontà politica da parte dei paesi membri. Questa ipotesi non appare tuttavia più così irrealistica dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione. I governi che fossero disposti a metterla in atto tra di loro potrebbero fare ricorso alle “cooperazioni rafforzate”: queste sono previste dal Trattato qualora «gli obiettivi ricercati non possano essere conseguiti entro un temine ragionevole dall’Unione nel suo insieme», a condizione che partecipino almeno nove Stati membri.

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I pericoli che minacciano l’Ue e i suoi stessi confini

La rimozione dell’ostacolo dell’unanimità non sarebbe tuttavia sufficiente a rendere efficaci le iniziative di politica estera dell’Unione, se non sostenute da adeguati mezzi militari e dalla determinazione di utilizzarli. Allo stato attuale è illusorio pensare che gli Stati europei abbiano la capacità militare – anche operando collettivamente – di avviare credibili iniziative di politica estera per affrontare, senza il sostegno degli Stati Uniti, i pericoli che minacciano l’Europa ai suoi stessi confini: la rinnovata aggressività russa; i conflitti nel Medio Oriente (alimentati da vecchi e nuovi attori della politica mondiale) e le loro ripercussioni nel Mediterraneo; l’incapacità dell’Africa di assicurarsi da sola la stabilità, la sicurezza e lo sviluppo economico. Finita l’epoca Trump, è ora possibile ricominciare a contare sul contributo degli Stati Uniti per contenere la Russia e per cercare di riportare ordine in Medio Oriente, alla condizione che i paesi europei si dimostrino solidali con Washington (anche per quanto riguarda i rapporti con la Cina): condizione che non è stata ancora chiarita da tutti i governi dei paesi dell’Unione. Ma è indispensabile prendere atto che aiutare l’Africa a trovare pace e benessere è responsabilità, innanzitutto e soprattutto, degli europei, e che spetta a loro occuparsene seriamente, se vogliono evitare che l’Africa finisca per riversarsi fisicamente sul Continente europeo per fuggire dai suoi drammi interni o che diventi una colonia della Cina con conseguenze comunque molto negative per l’Europa.

Finita l’epoca Trump, è ora possibile contare sul contributo degli Stati Uniti per contenere la Russia

Senza pretendere, per ora, che venga messa in atto una politica comune della difesa affidata a Istituzioni sovranazionali, i cittadini europei possono chiedere ai propri governi democraticamente eletti di rafforzare le capacità di difesa nazionali, per portarle a livelli credibili, anche con il concorso degli strumenti finanziari europei già esistenti (il Fondo Europeo per la Difesa) e possibilmente di nuove regole europee in materia di disciplina di bilancio, e di massimizzarne l’efficacia mediante la produzione in comune di armamenti e il coordinamento delle operazioni militari sotto un cappello europeo. Anche in questo caso, il Trattato offre un utile strumento: quello delle “cooperazioni strutturate permanenti”, alle quali possono far ricorso gli Stati membri che “rispondano a criteri più elevati in termini di capacità militari” e che intendano assumere responsabilità “più vincolanti ai fini delle missioni più impegnative”. I paesi europei hanno le capacità economiche e tecnologiche e dispongono di utili strumenti giuridici e finanziari forniti dall’Unione per assicurare la difesa congiunta dei valori della propria civiltà: valori che sono seriamente minacciati su più fronti. La capacità di difenderli dipende dalla volontà dei cittadini europei: l’espressione concreta di questa volontà sarebbe, tra l’altro, conforme agli impegni che i loro governi hanno assunto in seno all’Alleanza Atlantica.

*Roberto Nigido, Ambasciatore, già responsabile della Rappresentanza Italiana a Bruxelles, esperto del Laboratorio Europa dell’Eurispes.

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