Se Scrooge, il personaggio di Dickens che tanto disapprovava la gioia del Natale, avesse avuto una predilezione per la poesia, la scelta – verrebbe da pensare – sarebbe ricaduta su quegli autori nei quali avrebbe più facilmente potuto ritrovare la sua acre e disincantata visione della vita. Scrittori poco “gioiosi” come Bukowski, ad esempio, che della vita e delle relazioni umane dicono peste e corna, mettendo in luce fragilità e ipocrisie. Se l’avido e ombroso Ebenezer Scrooge avesse fatto una scelta di questo tipo, pensando di dare così conforto alla sua cieca misantropia, si sarebbe dovuto ricredere, perché anche Bukowski appartiene a quella schiera di scrittori sui quali è sempre opportuno non avanzare mai giudizi avventati e precostituiti. Lo dimostra proprio il modo e la frequenza (troppo alta per passare inosservata) con cui il tema del Natale fa capolino nei suoi scritti. In Storie di ordinaria follia, il Natale, per quanto venga definito una favola e un miraggio, non è mai l’impersonale e distaccata narrazione di una festa da calendario. Una delle tante feste religiose di un annuario laico buone per tirare il fiato e spezzare la routine di giorni tutti uguali. Quel che anche Bukowski vorrebbe è che almeno il Natale fosse davvero un giorno diverso. Ecco perché, là dove ne scrive, Natale è quel periodo dell’anno in cui il bilancio periodico di ciò che è stato può rivelarsi inesorabilmente povero. Nelle sue poesie lascia intendere che sarebbe una pura illusione farsi abbagliare dalla luce intermittente delle luminarie, perché questa potrebbe gettare luce sulle nostre più oscure e banali oscurità.
Come bambini a sognare il Natale
Fortunato potrebbe dirsi per Jack Kerouac il bambino a cui non è stata negata l’esperienza del Natale. Come può, in effetti, respingere il Natale chi non ha mai avuto modo di crederci almeno una volta nella vita? Certi adulti che digrignano i denti al solo pensiero del Natale possono dirsi attendibili solo nella misura in cui sono stati anche in grado di riconoscerlo. Per negare il valore di una qualsiasi cosa, logica insegna che la “cosa” negata debba essere stata comunque ammessa e sperimentata. Quindi, “once in a lifetime” (almeno una volta nella vita), come direbbe Kerouac, tutti gli Scrooge del mondo devono avere avuto a che fare con il Natale. Potrebbe essere accaduto anche a loro quello che il poeta della beat generation ricorda della propria infanzia, vale a dire di come «era davvero eccitante avere il permesso di rimanere alzati in piedi sino a tardi la vigilia di Natale, indossare i nostri vestiti migliori, le sovrascarpe, i paraorecchie e camminare con gli adulti sulla neve asciutta e crepitante fino alla chiesa nella quale le campane già suonavano»[1]. Ma il Natale è più di un rito o di una suggestiva atmosfera adatta a una reclame per buoni sentimenti. Può non essere così luccicante, come vorremmo credere. Per Kerouac, «c’è una qualche Natività più oscura di quella della cristianità, con i Re Magi che vengono dal sottosuolo, Vergine Maria del ghiaccio e della neve, Giuseppe degli alberi, Gesù come una stella – una Betlemme di pigne, rocce e serpenti – Muri di pietra, occhi»[2]. Frutto del sottosuolo, imparentato con la terra, l’humus che ha impastato i primi esemplari di uomo, profondamente terrestre come l’origine di molti dei dell’antichità, il Natale dei nostri giorni potrebbe essere, anche per Kerouac, se non luccicante, almeno illuminante, e appartiene agli uomini come questi appartengono alla terra.
L’augurio di un Natale con pochi regali
Scrutare il Natale con lo sguardo di un bambino che pregusta il momento in cui scarterà il suo regalo è quello che i poeti dovrebbero sempre saper fare anche quando Natale non è. Vale per i poeti, ma, in generale, potrebbe essere una raccomandazione da estendere a tutti. Ci vorrebbero, allora, occhi curiosi e ingordi di vita per cogliere l’essenza del Natale, perché, come direbbe Alfredo Cuervo Barredo, non si perda l’occasione di lottare per quello in cui si crede e desistere per paura. A Natale, ha scritto il poeta spagnolo in “Queda Prohibido”, una poesia del 2001 che tanti attribuiscono erroneamente a Neruda, almeno a Natale, «è proibito non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà». Sognare continua però a essere un lusso per una gran parte di umanità. Per i diseredati, gli ultimi, gli invisibili, gli esclusi, gli uomini e le donne, i bambini e le bambine senza affetti e senza radici che sono una fetta considerevole di questa umanità sofferente, a Natale potrebbe essere quasi giustificato fare cattivi pensieri, se non fosse vero che, come ammonisce Alda Merini, «chi è solo / lo vorrebbe saltare / questo giorno». Il miglior augurio possibile, per la poetessa, che sulla solitudine e sull’emarginazione ha costruito la sua triste e calda poetica delle relazioni umane, sarebbe quello di un Natale con pochi regali.
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Nessuno svegli il Gesù dormiente
Tanta eccitazione per il Natale potrebbe essere, d’altronde, controproducente. Vien da chiedersi se sia davvero autentica la preghiera che in più lingue e in più luoghi sentiamo rivolgere al Dio bambino perché a Natale faccia sentire la sua presenza? Che cosa potrebbe accadere, se quel Gesù dormiente, ancora in fasce, esaudisse la richiesta e rispondesse all’invocazione? Se lo chiede Dino Buzzati, immaginando quale potrebbe essere la nostra reazione se il presepe si animasse e il piccolo Dio che deve ancora morire attraversasse i nostri salotti e osservasse le nostre esistenze. «E se venisse per davvero? / Se la preghiera, la letterina, il desiderio / espresso così, più che altro per gioco / venisse preso sul serio? / Se il regno della fiaba e del mistero / si avverasse? Se accanto al fuoco / al mattino si trovassero i doni / la bambola il revolver il treno / il micio l’orsacchiotto il leone / che nessuno di voi ha comperati?»[3]. Il poeta si chiede se sia realmente questo ciò che desideriamo o se le nostre siano solo parole di circostanza, spente e meccaniche preghiere indirizzate a un Dio che non dovrebbe avere alcun motivo per prendersi cura di noi ancora una volta. Se mai dovesse attraversare i nostri salotti e farsi udire come un maldestro Babbo Natale, sarà bene – suggerisce Buzzati – che qualcuno dica a quel Gesù di fare piano e di non dare nell’occhio. Più che la sorpresa di un evento tanto inatteso, sarebbe l’imbarazzo, alla fine, l’effetto meno gradevole.
Il gelido Natale di Dostoevskij
Se mai accadesse, sarebbe un evento eccezionale. Dopo essere finito sulla croce, il Gesù bambino che si è fatto adulto sembra non essersi più ripresentato lungo il percorso dell’umanità. Nietzsche direbbe che se ne conserva traccia nelle chiese che ne usurpano il nome e in qualche sedicente miracolo. Per Dostoevskij, lo scrittore russo che ha sempre lamentato l’assenza di Dio, non dandola però mai per scontata, se mai il Dio bambino dovesse presentarsi al cospetto degli uomini, finirebbe col non essere riconosciuto. È quello che succede ogni giorno e in ogni luogo del mondo, ed è quello che ha voluto dimostrare con una delle sue storie sul Natale che racconta di un bambino di pochi anni che vive in un gelido scantinato. Attratto dal rumore festoso e dalle vie addobbate per il Natale, attraversa, seminudo, la città. Tutti lo respingono e nessuno pare realmente accorgersi di lui, se non per cacciarlo via. Cosa che fa anche una donna che, non sopportandone la vista, gli rifila una copeca per allontanarlo dagli occhi e dalla coscienza. Il bambino morirà assiderato, ma Dostoevskij, al quale qualche volta non dispiaceva assegnare un finale lieto alle storie più dure, farà sì che possa festeggiare il Natale grazie a un sogno che gli sembrerà più reale degli stenti sino ad allora patiti. Un sogno che ricorda quanto duro sia il mondo reale anche a Natale.
[1] J. Kerouyac, Bella bionda e altre storie, Mondadori, Milano 2018.
[2] Kerouac, Bella bionda e altre storie.
[3] D. Buzzati, Le poesie, Neri Pozza, Vicenza 1982, p. 93.