Le difficoltà amplificano le capacità di trovare soluzioni, lo stato di necessità impone ripensamenti, e la crisi è sempre stata un motore eccezionale in grado di partorire innovazione e, spesso, ricchezza. Rimescolare le carte e proporsi per nuove partite e sfide: questa dovrebbe essere la logica di chiunque pretenda di fare impresa, o di creare condizioni perché l’impresa sia agevolata, e di non sottostare passivamente ai diktat del mercato. In teoria siamo preparatissimi, ma pretendiamo che sia la montagna a raggiungerci.
Ci vuole un terremoto per scuoterci, o una bella pandemia. Ed ecco che, allora, come se niente fosse, riusciamo a tirare fuori soluzioni dettate dall’emergenza, ma facciamo l’errore di considerarle, per l’appunto, emergenti e, quindi, legate al momento contingente. Pochi sono quelli destinati inevitabilmente al successo, in grado di cogliere queste opportunità e trasformarle in mutamenti organizzativi e comportamentali in grado di produrre nuovi modelli di lavoro.
Il south working potrebbe diventare una possibilità concreta di sviluppo per il Mezzogiorno
La storia ci insegna che siamo grandi collezionisti di occasioni mancate. Durante il primo lockdown ci siamo innamorati e infatuati dello smart working come l’uomo primitivo dinanzi al fuoco, dimenticando che il telelavoro in Italia è regolamentato e sottovalutato da decenni. Oggi, siamo alla conquista di una nuova frontiera: il south working. È, questo, un fenomeno che ricalca lo smart working e indica il trasferimento, il ritorno a casa, lo spostamento di lavoratori meridionali dalle città del Nord al Sud. Un movimento possibile grazie alla modalità da remoto che ha permesso a molti di continuare a lavorare anche lontano dall’ufficio. Della tendenza se ne parla praticamente dall’inizio dell’emergenza: molti meridionali, studenti e lavoratori, impauriti dal contagio che ha colpito in particolar modo la Lombardia, sono tornati di corsa a casa dopo gli allarmanti bollettini dell’epidemia. Alcuni di questi hanno continuato a lavorare tornando nelle loro città e paesi di origine nel meridione. Molti hanno anche disdetto gli affitti, tanto per dire.
Il south working oggi fa molto parlare, in quanto potrebbe diventare, da fenomeno momentaneo, una possibilità concreta per il Mezzogiorno costantemente provato dall’emigrazione e dallo spopolamento. La fuga dei cervelli della quale tanto si è discusso nell’ultimo decennio. Secondo Il Sole-24Ore in venti anni Milano ha guadagnato circa 100mila residenti da tutta Italia. Prima dell’emergenza vi circolavano, quotidianamente, circa tre milioni di persone, quasi il doppio dei residenti. Adesso, il capoluogo lombardo, motore dell’economia italiana, segna perdite consistenti anche a causa della partenza dei suoi numerosi fuorisede. «In pieno centro, la perdita di fatturato per alcuni locali si può misurare nell’ordine del 75% e la situazione peggiore è legata alle attività diurne, proprio perché gli uffici sono chiusi e i dipendenti non escono a pranzo», ha detto Carlo Squeri, Segretario generale di Epam-Confcommercio.
Sarebbero oltre 100.000 i lavoratori coinvolti nel south working nel corso del 2020
Fino a qualche anno fa lavorare in regime di “lavoro agile” era prerogativa di pochissime categorie di lavoratori, perlopiù libero-professionisti o freelance. Lo strappo determinato dall’emergenza sanitaria ha spinto moltissime aziende a considerare seriamente l’eventualità di rendere lo smart working una costante nei propri processi organizzativi. Dal canto loro, tanti lavoratori fuorisede hanno colto l’occasione del lavoro da remoto per rientrare nelle città di origine, conciliando la propria attività con la vicinanza degli affetti e della famiglia. Secondo uno studio condotto da “Datamining” per conto dello Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, si stima che sarebbero oltre 100.000 i lavoratori coinvolti nel south working nel corso del 2020. Un’inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto negli ultimi due decenni, caratterizzati da un flusso costante di meridionali che si sono stabiliti nel Nord del Paese per esigenze di lavoro o di studio. Complice la maggiore diffusione del virus nelle regioni settentrionali, chi ha già un impiego che non richiede una presenza fisica costante nella sede del datore di lavoro o del committente preferisce tornare nei luoghi d’origine, aprendo nuove possibilità per il Mezzogiorno, costantemente provato da una progressiva desertificazione umana.
Qualche numero su chi si muove e perché: la fotografia dell’ultimo anno
- 9,5% quota di connazionali residenti all’estero, in tutto si tratta di 5 milioni di persone, la presenza all’estero è aumentata del 3%;
- 798mila italiani all’estero provenienti dalla Sicilia: la regione con la comunità più numerosa di residenti in paesi stranieri;
- 180 le destinazioni scelte dagli italiani che si spostano fuori dai nostri confini; il 78% lo ha fatto scegliendo l’Europa;
- 2,4% le pensioni pagate a cittadini residenti all’estero dall’INPS, su un totale di 13 milioni di pensioni pagate dall’Istituto.
Quali sono i vantaggi di lavorare al Sud?
Opportunamente “accompagnato”, il fenomeno del south working potrebbe, dunque, costituire una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro e un importante strumento per abbattere le disparità tra Nord e Sud, di cui beneficerebbero sia le imprese sia i lavoratori. Dal punto di vista delle aziende, infatti, i vantaggi del south working si concretizzerebbero in:
- una maggiore flessibilità nella gestione degli orari di lavoro;
- una riduzione dei costi fissi legati, per esempio, all’affitto degli uffici (che potrebbero essere ridimensionati) e al loro mantenimento;
- una riduzione dei costi extra, come quelli necessari all’erogazione dei buoni pasto, o alla gestione di una mensa aziendale;
- una maggiore motivazione da parte del personale, che porterebbe a una maggiore produttività;
- un miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori;
- una riduzione degli straordinari e dei fenomeni di assenteismo per le Pubbliche amministrazioni.
Inoltre, relativamente alla sicurezza sul luogo di lavoro, può essere interessante notare che grazie al diffondersi della pratica del “lavoro agile” nel 2020 sono diminuite le denunce per infortuni sul lavoro (-15,8% rispetto al 2019).
Paradossalmente, proprio grazie ad un’ulteriore destrutturazione del lavoro subordinato, i dipendenti vedrebbero tornare al centro del dibattito il problema del luogo di lavoro, da tempo sacrificato sull’altare della flessibilità, con risvolti importanti dal punto di vista della qualità della vita. Per i fuorisede, lavorare dal Sud comporterebbe, infatti, un significativo risparmio in termini di spostamenti e costo della vita (spesso più oneroso al Nord che al Sud) e una maggiore vicinanza agli affetti e alle proprie radici, oltre alla possibilità di scegliere il luogo in cui vivere in base a preferenze e possibilità. Ciò avrebbe delle ricadute positive sull’intera rete sociale, per esempio in termini di ripopolamento delle aree depauperate, con la presenza dei giovani in alcune realtà che farebbe inevitabilmente rifiorire l’economia locale, e anche a livello ecologico, con una riduzione degli spostamenti, per esempio a ridosso dei periodi festivi.
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I problemi del south working
Ma non è tutto oro ciò che luccica: il south working non risolve il problema della disoccupazione giovanile al Sud, dal momento che i south workers sono comunque impiegati al Nord, senza contare che non tutte le aree del Paese sono coperte da un’infrastruttura digitale adeguata. Inoltre, poiché si tratta pur sempre di smart working, il south working condivide con esso gli stessi problemi:
- un minore controllo sul dipendente e problemi di sicurezza informatica;
- favorisce l’isolamento sociale;
- accentua le disparità economiche, poiché occorrono dotazioni tecnologiche;
- diminuzione dello spirito di squadra;
- minori occasioni di crescita professionale;
- spinge le aziende a maggiori esternalizzazioni.
Secondo il direttore dello Svimez, Luca Bianchi, alcuni di questi problemi possono essere risolti attraverso:
- incentivi di tipo fiscale e contributivo;
- creazione di spazi di co-working;
- investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie (asili nido, tempo pieno, servizi sanitari);
- infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud e tra aree urbane e periferiche.
Insomma, puntare sul south working può essere una scommessa vincente per tutti, a patto che il cambiamento avvenga sulla base di una concertazione tra tutte le parti e che sia accompagnato dagli opportuni aggiornamenti normativi.
Il south working non risolve il problema della disoccupazione giovanile al Sud
Oggi, grazie alle risorse finanziarie comunitarie, siamo in grado di creare quella infrastrutturazione digitale capace di abbattere considerevolmente il divario Nord/Sud e di creare le condizioni affinché una necessità dettata dall’emergenza sanitaria possa trasformarsi in una rivoluzionaria occasione di sviluppo e crescita. Coglieremo questa opportunità?
Se è vero che il south working è una specie di rivoluzione, forse è meglio tornare alle parole di Mao: «La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra».
Senza arrivare alla violenza, è pur vero che se il trend continuerà andranno ripensate tante cose: i trasporti, le scuole, l’offerta formativa delle Università, le attività di supporto a chi lavorava al Nord (bar e ristoranti, in primis). E, poi, i compensi, i contratti, i rapporti col datore di lavoro. Oggi non è più tempo di fare rivoluzioni, ma bisogna credere ai cambiamenti che sono, innanzitutto, culturali e pretendono sempre il doversi rimboccare le maniche: pensare che quella del south working è una strada in discesa, rappresenta il modo migliore per farla fallire. Il prossimo futuro può anche essere questo: non aspettare che Maometto raggiunga la montagna. Anzi.