Se crescere vuol dire combattere senza sapere cosa può accadere e perché potrebbe, questi sono i pensieri di questi giorni. Giorni perduti nel lutto di non sappiamo perché. Noi abituati a pensare di morire per una malattia o un incidente: speranza di vecchiaia nel primo caso, casualità nel secondo.
Eppure c’è stato un tempo dove le cose erano tutte da scrivere. Nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto. E le ipotesi sarebbero state inferiori alla crudeltà del futuro.
Erano i tempi dei nostri nonni. Passati indenni, o feriti, o morti, attraverso due guerre. Gente che non aveva altro che la propria speranza e capacità di restare viva. Mettendo in pratica il buon senso o l’errore fatale.
Eppure, e non è casuale questa ripetizione, oggi noi siamo qui. Carichi di troppi diritti, di figli e cose materiali, tanto da far gola a chi non ha nulla e vorrebbe tagliarcela.
Se i nostri nonni avessero mollato, si fossero arresi alle notizie dal fronte, alle cose che non c’erano più, alle paure di elmetti che battevano il passo per le vie della dolce vita, allora oggi non avrebbe avuto alcun senso passare attraverso quelle barbarie.
Perché i barbari hanno il cuore breve e non conoscono il potere dei nonni.
Leggendo i romanzi di Irène Némirovsky, colpisce l’attualità del pensiero non finito. Non c’è futuro completo. Solo piccole storie immense, perdute nella mancanza di un finale conosciuto. Lei sarebbe morta a trentanove anni, dimenticata, non pubblicata nemmeno sotto pseudonimo. Eppure le sue parole scivolano via come balsamo lenitivo per l’anima, creano angoscia sottile, ma subito la curano, con l’immenso potere dell’amore universale, disilluso e declinato tra i vizi giornalieri di vite normali. Che lega le persone perdute di un dramma collettivo, che deve ancora accadere. Mentre noi siamo lì, con il potere della nostra machina del tempo e la facilità triste della conoscenza.
Ed è proprio il futuro incompleto e inconsapevole quello che più sembra vivo.
Lei non sapeva che sarebbe stata deportata, che sarebbe morta in un campo di concentramento. Nessuno poteva immaginare l’orrore che sarebbe stato scritto nei secoli.
Tantomeno sapeva che sarebbe stata riscoperta, ripubblicata, che qui nel 2015, qualcuno l’avrebbe letta, trovata moderna, scritto delle sue antiche sensazioni irrisolte. Con il sospetto che potessero essere le sue.
Il messaggio è quello dell’unica Civiltà possibile: quella che va avanti, progredisce, migliora, cresce, coltiva e soprattutto riscopre, mantenendo vivo il ricordo. Come un dolce vento di un campo di grano. La grandezza di un seme lavorato e la pace che soffia e muove anima e pensieri con il rumore delle spighe di giugno. Entrambe nostre. Allora e adesso. Senza intermediari.