La droga è un virus letale che distrugge amore e famiglie

Cosa accade in una famiglia quando dalla porta entra la droga? Angela Iantosca, giornalista e autrice di numerose pubblicazioni, racconta il percorso che l’ha portata a scrivere l’ultimo libro In Trincea per Amore. Storie di famiglie nell’inferno delle droghe (Ed. Paoline, 2020). Storie dolorose, ma anche di rinascita, di persone che hanno dovuto ammettere con se stessi la propria cecità, che hanno dovuto fare i conti con la verità, con i silenzi familiari e con un loro irrisolto interiore.

Angela Iantosca, il filo conduttore di tutti i suoi libri sembra essere sempre la famiglia e in particolare i bambini, soprattutto coloro che vivono condizioni di sofferenza e profondo disagio. Nel suo ultimo In Trincea per Amore affronta un tema duro e nel contempo attuale quale la condizione difficilissima di famiglie che vivono il dramma di un figlio tossicodipendente. Come è arrivata a questo tema e perché?
Nel 2015 sono entrata per la prima volta nella comunità di San Patrignano per realizzare un servizio per La vita in diretta (RaiUno). Quando ho varcato quel cancello e ho incontrato quei 1.300 ragazzi in cammino, ho deciso che dovevo raccontarli. Così ho chiesto alla comunità di poter intervistare alcuni di loro, facendo comprendere, attraverso le storie, che la droga è “democratica e trasversale”, che non si ferma di fronte ai titoli di studio e al portafoglio, che riguarda tutti, dal centro alle periferie. Da queste storie e dal mio lavoro sul campo, nelle piazze di spaccio, è nato Una sottile linea bianca, nel quale spiego la situazione in Italia attraverso la voce di chi ha provato a gettar via la vita, per poi aggrapparsi disperatamente ad essa, delle Forze dell’ordine, attraverso i report, i dati, gli psicologi e anche chi frequenta ancora quei supermercati sempre aperti che sono le piazze di spaccio. Dal momento in cui è stato pubblicato il libro, hanno cominciato a venire da me ad ogni presentazione i genitori, dicendomi “parla di noi”. Ho resistito per qualche tempo, nella consapevolezza che ci vuole una grande responsabilità e una grande equilibrio nel raccontare un materiale così fragile, ferito, piegato. Poi ho ceduto e capito che era giusto e necessario scrivere di loro quando un uomo, tra le lacrime, mi ha detto “ho fatto cose che un padre non dovrebbe mai fare pur di salvare mio figlio”. Quel grido mi è entrato nel cuore, nello stomaco ed è diventato urgenza di raccontare loro, quella parte a cui non si pensa mai, che nessuno mostra fino in fondo: le famiglie, nei cui nuclei si trova una parte delle ragioni che hanno portato alla tossicodipendenza. Così, ho cominciato ad ascoltarli, ad andare nelle associazioni sparse nel territorio nazionale nelle quali si riuniscono e dove hanno trovato un conforto, una direzione, ad intervistare psicoterapeuti, presidenti di associazioni, direttori di Sert. Ma, soprattutto, a raccogliere testimonianze. Storie dolorose, ma anche di rinascita, di persone che hanno dovuto ammettere con se stessi la propria cecità (più o meno inconsapevole), che hanno dovuto fare i conti con la verità, con i silenzi familiari e con un loro irrisolto interiore. Che hanno dovuto ammettere paure, fragilità, rabbia, sfiducia, stanchezza infinita e anche una forma di tossicodipendenza dalla dipendenza del figlio che dopo anni diventa quasi uno status quo dal quale è difficile staccarsi, nonostante la voglia di tornare finalmente a vivere. Per raccontare tutto questo, non ho deviato dall’uso di parole dure, affilate, tragiche, nel rispetto di ciò che gli stessi familiari mi hanno confessato nei loro racconti duri, affilati e tragici”.

Nella quarta di copertina lei afferma, in sostanza, che per raccontare le storie di tante famiglie piegate dalla sofferenza di un figlio tossicodipendente, si è fatta attraversare dal dolore che ha incontrato. Quanto sono state faticose questa immedesimazione e poi l’elaborazione delle storie?
Ho imparato negli anni ad ascoltare, provando a controllare la sofferenza che certe storie inevitabilmente provocano. Ma ammetto che per me è impossibile non creare una relazione con chi mi apre la porta su abissi in cui è difficile guardare. Impossibile non instaurare un silenzioso patto di fiducia reciproco quando ti viene fatto un dono così grande, che noi giornalisti amanti delle storie abbiamo spesso la fortuna di ricevere. Impossibile non sentire nello sguardo apparentemente calmo, ma arrossato, di quella madre che mi racconta del figlio distrutto dalla droga, l’urlo della sua anima, il suo desiderio di sparire per sempre insieme a quel pezzo della sua carne… Ho raccolto ogni loro lacrima, intuendo quello che non si poteva dire e decidendo di comune accordo con gli intervistati di tutelare prima di tutto le persone coinvolte, scegliendo di volta in volta se cambiare i nomi e sorvolare su qualche dettaglio. Il risultato sono storie potenti, ma non casi limite, proprio per non creare nel lettore una distanza da ciò che legge. Sono storie molto comuni che, ormai, sono entrate nella mia vita. Sono famiglie sparse in Italia che continuo a sentire, seguire, che mi mandano il loro affetto e che provo ad incrociare in ogni mio spostamento… Questo per me significa farmi attraversare dal dolore: scrivere, restituendo, e poi non lasciare andare, ma continuare ad avere cura di loro, per quanto possibile…

Lei è da sempre attenta anche al tema delle mafie. È nata peraltro in una provincia, Latina, in cui le mafie sono radicate da tempo e intrecciano i loro affari con settori nevralgici della vita pubblica. Qual è, secondo lei, oggi il rapporto tra droghe e mafie nel nostro Paese?
Strettissimo. Sono le mafie, non solo italiane, a gestire il traffico e lo spaccio delle sostanze stupefacenti nelle piazze che, solo a Roma, sono 100, secondo quanto dichiarato dal Report redatto dall’Osservatorio Sicurezza e Legalità della Regione Lazio. I gruppi organizzati, in gran parte romani, gestiscono le piazze di spaccio con una rigidissima suddivisione del territorio, hanno rapporti e relazioni con soggetti componenti appartenenti ai casalesi, gruppi di camorra e soprattutto calabresi, che sono i grandi fornitori delle piazze di stupefacenti. È comunque la ’ndrangheta che può essere considerata l’organizzazione leader nel settore del narcotraffico romano e non solo. Secondo l’Eurispes, appunto, il 62% del fatturato annuo della ’ndrangheta deriva dal traffico di droga.

 

Dopo il viaggio che ha compiuto dentro il dolore di molte famiglie piegate dal dramma delle droghe, cosa pensa che questo Paese debba ancora fare per combattere meglio questo dramma? In cosa siamo mancanti ancora?
Si deve investire sul lavoro di prevenzione e informazione. Bisogna promuovere percorsi di formazione nelle scuole, per genitori, insegnanti e alunni, che consentano di capire davvero quale è il dramma che si sta vivendo anche attraverso le testimonianze di chi ci è finito nell’inferno delle droghe. Da anni realizzo progetti in tal senso nelle scuole, a cominciare dalle Medie, ma riesco a farlo solo dove c’è lungimiranza, preoccupazione, dove ci sono presidi o amministrazioni attente in tal senso e non distratte. Purtroppo, l’età si è abbassata: i dati nazionali parlano di 14 anni, ma tutte le storie incontrate sino ad ora – e sono migliaia – ci dicono che si comincia molto prima, anche ad 11-12 anni. Finché si porrà la discussione sul piano partitico, si fallirà. Mi sento spesso “attaccata” per il mio impegno in questa battaglia da persone che provano a tutti i costi a trovare nelle mie parole un colore politico. Approfitto di queste pagine per ribadirlo ancora una volta: mi interessano gli esseri umani; le bandiere, gli slogan non mi interessano e le mie parole sono frutto dell’esperienza sul campo, dell’ascolto, della conoscenza profonda del fenomeno dopo anni di vita vissuta a stretto contatto con famiglie, ragazzi in percorso, esperti. Quello che mi spinge è capire: quale società stiamo costruendo, quale futuro ci aspetta, se il 34% degli studenti delle scuole superiori (ed è un dato positivo rispetto alla realtà che incontro) fa uso di sostanze stupefacenti? Mi interessa capire quali siano quei vuoti, quelle sofferenze che spingono un giovanissimo a volersi sballare. Dove abbiamo sbagliato noi adulti e come possiamo rimediare? Il Ministero della Salute, il Ministero dell’Istruzione dovrebbero promuovere questi percorsi sempre di più.

Che cosa direbbe ad un ragazzo/a che sta per entrare dentro il tunnel delle tossicodipendenze? E ai suoi genitori?
Ai genitori direi di non sottovalutare, di non archiviare le stranezze del figlio come un momento di passaggio, come una fase dell’adolescenza. I genitori spesso hanno paura di vedere, di ammettere un “fallimento”, di risultare inadeguati a se stessi, di affidarsi a qualcun altro. Ma quando si ha a che fare con la droga, bisogna chiedere aiuto, mettendo da parte ogni forma di “ego”. Esistono in Italia decine di associazioni e migliaia di genitori che hanno vissuto lo stesso dramma: contattateli, loro sapranno darvi le indicazioni giuste. Ai ragazzi? Farei incontrare loro un ragazzo che è in percorso in comunità, farei ascoltare le parole di chi con occhi malinconici ti dice che nella vita ha viaggiato molto ma che non ricorda nulla dei posti che ha visto perché era sotto l’effetto delle sostanze, farei sentire le parole di chi, come tutti, era convinto di smettere in qualsiasi momento, li farei parlare con quelle ragazze che per una dose di cinque euro sono arrivate a prostituirsi, a minacciare i genitori, a fare rapine, a sparare, a rubare in casa, a picchiare un nonno… E a non ricordare niente. Li farei parlare con Federico, ex tossicodipendente che ora fa incontri con i ragazzi nelle scuole grazie al progetto “We Free” della comunità di San Patrignano, che ai giovani dice: «Pensate alle cose belle che avete ora. Pensate alle vostre passioni. Aggrappatevi a queste cose, quando vi sentite a disagio, vi sentite incompresi o state male. Perché la droga queste cose le distrugge tutte». E allora, concentratevi sullo sport, la lettura, i viaggi, le amicizie positive, i libri, la musica… La vita è bella se vissuta da lucidi!

Nel libro si fa spesso l’uso di un concetto fondamentale che è “la responsabilità”. Per decenni l’approccio prevalente del Paese sembra, invece, essere stato quello del giudizio e poi della condanna, dell’emarginazione come pratica diffusa per allontanare e negare il problema. Come si passa dal giudizio alla responsabilità?
Si parla di responsabilità e non di colpe perché quest’ultima parola innesca meccanismi psicologici distruttivi e non di positiva ricostruzione. E se si sta attraversando la tempesta, è molto importante usare le parole giuste che siano un appiglio nel cammino, sia per i genitori sia per i ragazzi. Il sentimento del senso di colpa in un ragazzo tossicodipendente potrebbe diventare l’alibi per drogarsi ancora. In un genitore potrebbe spingere a piangere, a star male, a ripiegarsi, ad essere debole. E la debolezza è un sentimento sul quale un tossicodipendente può facilmente fare leva. Ciò che serve quando e se si vuole uscire dal tunnel della droga, sia da ragazzo sia da genitore, è, al contrario, forza, determinazione, coraggio.

Esiste, secondo lei, una differenza tra droghe pesanti e droghe leggere? E nel caso dove traccerebbe il confine?
La distinzione serve solo per la legge, perché la pena cambia in base al tipo di sostanza. Da un punto di vista medico, non c’è distinzione: la droga è droga. Gli effetti sul fisico, la mente, l’anima di chi ne fa uso, cambiano a seconda della sostanza. Ma nella comunità di San Patrignano, per esempio, da alcuni anni stanno entrando ragazzi con dipendenza solo da cannabis.

Nel titolo ha inserito il termine “amore” ad indicare che la lotta alle tossicodipendenze è in sé una guerra difficile, appunto da affrontare in trincea, ma è ispirata da un atto d’amore. L’amore è il filo conduttore del libro delle famiglie per un familiare tossicodipendente ma, in alcuni casi, anche del tossicodipendente per la vita.
Per amore, si prova a salvare il figlio. Per amore, a volte, gli si compra la droga per evitare che commetta altri reati, sbagliando. Per amore, lo si denuncia. Per amore, lo si caccia di casa. Per amore, si mettono in campo strategie: si nascondono chiavi, si nascondono soldi, si tolgono di mezzo oggetti di valore, lo si chiude in camera, non si va al lavoro, si segue il figlio, si pagano i suoi debiti… Quello che bisogna fare è – lo ribadisco – chiedere aiuto, non mostrarsi deboli, non cedere a nessun ricatto emotivo, non credere alle promesse, ma seguire le indicazioni che danno gli esperti (nelle associazioni, nelle comunità, nei Sert…). Dal canto loro, quando decidono di riprendersi la vita, è molto difficile che lo facciano spontaneamente, come libera scelta. È più probabile che vengano costretti alla comunità e si convincano della bontà o dell’opportunità della “scelta”, strada facendo. Alcuni episodi, tuttavia, potrebbero spingerli ad andare in comunità: un momento di lucidità che fa capire loro come si sono ridotti, la morte di un genitore, la morte per overdose di un amico, la stanchezza, la voglia di fuggire da un “fuori” che è diventato troppo complesso da gestire… Non lo fanno per amore. L’amore torneranno a scoprire che cosa sia con il tempo, insieme a tutte le altre emozioni che la droga cancella. Forse dopo un anno, un anno e mezzo dalla fine della dipendenza fisica dalle sostanze. Chi smette di drogarsi dopo cinque, dieci, quindici anni dall’inizio della propria carriera da tossicodipendente, deve tornare a sentire la propria pelle, a sentire gli odori, i sapori, a scoprire quali siano i propri colori preferiti o il proprio ritmo… Chi smette, deve ricominciare il viaggio, facendo i conti con un buco nero, con le sofferenze provocate, con quelle ferite da trasformare, nel tempo, in punti di forza, con le ragioni che l’hanno portato alla droga. Ma, soprattutto, chi smette deve fare i conti con la meraviglia di tutto ciò che di incredibile ci è stato donato e che è intorno a noi, in ogni istante. Perché il vero sballo è proprio gettarsi a capofitto in tutto questo e cominciare semplicemente a vivere.

Angela Iantosca, nata a Latina e autrice di molte pubblicazioni (Onora la madre. Storie di ’ndrangheta al femminile; Bambini a metà. I figli della ’ndrangheta; Voce del verbo corrompere; Una sottile linea bianca). Da anni realizza progetti di prevenzione alle tossicodipendenze e alle mafie nelle scuole italiane. Ora è autrice del libro In Trincea per Amore. Storie di famiglie nell’inferno delle droghe, edito dalle Edizioni Paoline (2020).

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