Nell’àmbito del dibattito dedicato a Scuola e Università e delle attività dell’Osservatorio dell’Eurispes sulle Politiche educative, pubblichiamo l’intervista ad Alessandro Curioni, Docente del corso “Sicurezza dell’informazione” presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica di Milano Fondatore e Presidente di DI.GI Academy.
Come valuta la spesa pubblica destinata all’istruzione in Italia? Perché, secondo lei, proprio quello della scuola è stato uno dei settori maggiormente colpiti, negli anni, da tagli?
Premesso che storicamente l’Italia ha una spesa inferiore a quella della media europea, i risultati ci dicono che le risorse disponibili potrebbero essere spese meglio. In questo senso, ritengo che il problema sia, da un lato, di programmazione, dall’altro, di resistenza a un vero cambiamento del sistema. Troppe riforme volevano cambiare tutto, ma non hanno cambiato niente. Sul tema dei tagli dobbiamo pensare che per anni i nostri Governi ne hanno effettuato lineari e, dato che l’istruzione è un capitolo importante nella spesa pubblica, è stata pesantemente colpita. In secondo luogo, credo sia una questione di opportunità politica: se vuoi risultati nel breve periodo da “vendere” agli elettori, non è la scuola che ti permette di ottenerli.
Rivolgendo lo sguardo alle passate riforme dell’istruzione, quali sono stati a suo avviso i passaggi più rilevanti? L’autonomia scolastica è stata un bene o un male?
Alcune riforme, ribadisco, hanno cambiato poco nella sostanza, perché hanno trascurato l’aspetto più importante: i docenti. Si può anche decidere di inserire nuove materie, moltiplicare gli indirizzi di licei e istituti professionale, ma se poi chi deve insegnare non è preparato, non si va da nessuna parte. L’autonomia in quanto tale non è un bene o un male, dipende da come viene gestita.
Quali sono, a suo avviso, i fattori che influiscono maggiormente sull’apprendimento e, in generale, sui risultati positivi e negativi degli alunni?
Se avessimo una risposta definitiva a questa domanda, avremmo risolto la metà dei problemi di ogni scuola di ordine e grado. Quando l’insegnamento è rivolto ai più giovani, penso sia fondamentale la capacità di coinvolgerli. Questo significa in primo luogo contestualizzare la materia all’interno del loro vissuto.
Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici ed universitari. Si può immaginare un modello che non affidi la qualità dell’istruzione alle capacità ed alla buona volontà del singolo docente?
Non penso possa esistere una ricetta universale, ma molto è legato alla capacità degli insegnanti di sviluppare quelle che vengono definite “soft skill”. Se, come dicevo prima, la capacità di coinvolgere è basilare, è facile comprendere come le competenze “tecniche” arrivino per ultime nella formazione del docente. Prima si deve fare in modo che gli studenti acquistino consapevolezza del contesto in cui vivono, poi dell’utilità di quello che impareranno, e questo è un tema di educazione, soltanto alla fine arriva il momento dell’istruzione. I primi due passaggi sono una questione di sensibilità del docente. Il massimo che si può fare è insegnare un metodo.
Si parla spesso della necessità di ridurre i divari tra Nord e Sud anche nel campo della formazione. A suo avviso, è corretto parlare di divario geografico o, anche all’interno dello stesso territorio, i maggiori divari sono quelli tra centro e periferia, tra quartieri, tra realtà urbane ed extraurbane, tra pubblico e privato?
Secondo me, non è un problema “geografico”, ma di singolo Istituto. Le eccellenze sono sparse su tutto il territorio nazionale. Sono le persone che fanno quasi sempre la differenza.
In che misura ed in che modo, a suo avviso, le prospettive demografiche incideranno sul sistema scolastico del nostro Paese? E in che modo sarebbe opportuno prepararsi a questi cambiamenti?
Gli studenti si vanno riducendo, e dubito che l’immigrazione invertirà questa tendenza. La sfida sarà quella di resistere alla tentazione di tagliare i fondi della scuola; piuttosto, bisogna cercare di spenderli per migliorarne la qualità.
A suo giudizio, la scuola primaria e secondaria di primo grado si dimostra efficace nel fornire basi solide nelle diverse discipline e preparare gli alunni alle scuole superiori? E le superiori all’Università?
Il nostro sistema è piuttosto omogeneo nel suo percorso, il che non vuole dire che sia necessariamente un bene. Per esempio, sul fronte delle competenze digitali siamo indietro di decenni. Se però restiamo all’interno dell’alveo del percorso scolastico, penso che uno studente non viva traumi legati alla carenza di preparazione.
L’Italia si segnala per elevati tassi di abbandono e dispersione scolastica. A suo giudizio, quali sono le principali cause del fenomeno, quali le strategie più urgenti da adottare?
Siamo un Paese decisamente strano: da un lato, ci facciamo gran vanto della nostra cultura e dei nostri concittadini che ottengono successi all’estero, dall’altro facciamo passare sotterraneamente il messaggio che in Italia fai carriera se ha degli “amici” (oggi diciamo “network”). Il risultato: quelli che studiano hanno già in testa un futuro altrove. Dovremmo cambiare il sistema in modo da smentire la seconda delle due affermazioni.
Qual è e quale sarà, nell’immediato futuro, l’impatto delle tecnologie sul sistema scolastico, tenuto conto del metodo di insegnamento diffuso in Italia – spesso accusato di essere nozionistico, mnemonico, poco interattivo, specie se confrontato con i modelli di insegnamento stranieri – e degli insegnamenti che si possono ricavare dall’esperienza della Dad?
Nell’immediato è cambiato poco e credo anche che nel breve periodo non ci siano da aspettarsi cambiamenti. La speranza è che nel medio termine si riesca a lavorare sul metodo, ma non sono ottimista perché si tratta di un cambiamento culturale che potrebbe richiedere il passaggio di più d’una generazione. Proprio la Dad lo ha dimostrato: siamo tornati indietro nel giro di pochi mesi senza tenere nulla del buono che era emerso (per esempio, la possibilità per i ragazzi di seguire le lezioni anche quando non possono essere fisicamente presenti a scuola).
L’offerta universitaria in Italia è adeguata alle richieste del mercato del lavoro? E ritiene che ci sia un minor investimento da parte delle nuove generazioni sulla formazione universitaria?
Purtroppo no. Tra Università e lavoro esiste uno scollamento ancora molto forte e lo dico da imprenditore: quelle che in un’azienda sono spesso i requisiti minimi per svolgere qualsiasi lavoro, troppo spesso sono trascurati dalle Università. Faccio un esempio banale. Qualsiasi lavoro di concetto tu debba fare, oggi, devi sapere usare strumenti di office automation come fogli di calcolo, videoscrittura e applicazione per gestire presentazioni. La maggior parte dei neo-laureati ne ha una conoscenza parziale se non gravemente insufficiente. Per quanto riguarda i giovani, non ho la sensazione che investano meno nella formazione universitaria. Piuttosto, quelli che decidono di fare tutto il percorso, temono che l’Università non fornisca una preparazione sufficiente, e da subito ipotizzano di frequentare master e corsi di perfezione post laurea.
Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si è arricchita di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, ecc.) animando uno scenario di offerta educativa superiore che, in prospettiva, potrebbe spiazzare le tradizionali organizzazioni formative, Università pubblica in primis. Come valuta questa diversificazione dell’offerta?
L’offerta si è diversificata. Da un lato, le aziende hanno necessità di completare la preparazione dei nuovi assunti; dall’altro, gli studenti sentono che non basta quanto viene loro offerto dal tradizionale percorso scolastico.
Qual è la principale sfida che la scuola italiana si trova ad affrontare con riferimento ai prossimi cinque anni?
Ne scelgo una. Introdurre trasversalmente in ogni scuola di ordine e grado il tema delle tecnologie digitali, ma senza snaturare gli obiettivi formativi. Qualsiasi percorso scolastico dovrà prevedere percorsi sul tema perché qualsiasi lavoro i nostri giovani faranno domani – che siano umanistici o scientifici – le competenze digitali saranno imprescindibili, e questo percorso dovrà iniziare subito, nella scuola primaria.