Liberare Pasolini
Quarantasette anni dalla morte e cento dalla nascita. Tanto tempo è trascorso da quando Pasolini nacque e morì. Più che sufficiente per chiedersi che cosa sia rimasto oggi di lui nella memoria e nella cultura del nostro Paese. Non che, naturalmente, retrospettive e bilanci di questo tipo non siano stati nel frattempo fatti. Basterebbe pensare all’insistenza con la quale una simile domanda iniziò a prendere corpo e a circolare già all’indomani della morte dello scrittore. L’orrore documentato da una morbosa cronaca nera che a lungo ha voluto cimentarsi con la ricostruzione della morte violenta di cui fu vittima sembra abbia quasi voluto esorcizzare l’urgenza di quella domanda. Ancora oggi non risulta facile liberare Pasolini dalla scena del crimine di quel litorale ostiense in cui trovò la morte. Ancora oggi si rimane colpiti, feriti e offesi nel rievocare le circostanze della ferocia di cui fu vittima, circostanze che puntualmente emergono in superficie ogni volta che si tenta di rimettere mano alla vicenda giudiziaria e alla difficoltà di accettare – e anche definitivamente accertare – quanto accadde allora. Dopo tanti anni dovrà essere chiaro che fare della scomparsa di Pier Paolo Pasolini un evento della storia nazionale (una morte sospetta, una mattanza simbolica, l’epilogo di un bieco complotto) non giova a fare tesoro del suo lascito intellettuale e, soprattutto, morale. Perché se ha senso ricordare Pasolini a cent’anni dalla nascita è proprio per quello che ha dato e potrà continuare a dare.
Pasolini, più di un caso giudiziario
Del suo ruolo di intellettuale diceva di non avere alcuna autorevolezza, se non quella che spetta di diritto a chi non fa nulla per averla.1 Basterebbe questa semplice dichiarazione per cogliere la distanza tra la spocchiosa e artefatta umiltà di molti telegenici intellettuali e l’autore degli Scritti corsari. La trasparenza è il prerequisito di qualsiasi forma di onestà intellettuale, che, non trincerandosi dietro la notorietà o il facile ideologismo, esclude raggiri o sotterfugi dialettici, facendo del coraggio la sua più inequivocabile espressione. Quel coraggio che Pasolini dimostrò di possedere ogni volta che assumeva posizioni, più o meno condivisibili, spesso scomode e, comunque, sempre coerenti con la sua visione del mondo, malgrado questa lo costringesse anche a entrare in rotta di collisione con chi lo avrebbe voluto sempre dalla sua parte. È quanto, ad esempio, accadde agli studenti del movimento sessantottino che a Valle Giulia si scontrarono con la Polizia, ai quali rimproverò l’adesione a un’ambigua coscienza di classe, figlia di una ottusa e vanitosa mitologia borghese della rivoluzione confusa con l’esercizio di un “sacro teppismo”. Anche in quella circostanza Pasolini, il cantore delle Ceneri di Gramsci, sorprese per l’impopolarità e la durezza delle sue parole e l’appello, velato da uno scherno indignato, che quelle contenevano: scrutare il fondo della vera oppressione e non rendersene complici.
Un antifascismo esistenziale
Dobbiamo a Pasolini una delle più profonde analisi del fascismo, che, a torto (e si tratterebbe di un errore difficilmente perdonabile), può essere considerato chiuso con l’esperienza storica del regime dittatoriale di Mussolini. Benedetto Croce lo aveva definito una deviazione e, per sottolinearne negativamente la configurazione etica, parlò anche di “stortura”. Nell’accezione crociana, il fascismo sarebbe così un errore, una sorta di sbandamento, un peccato che le “riparazioni” del processo storico avrebbero reso in qualche modo veniale. Con il fascismo, invece, secondo Pasolini, ci si sarebbe compromessi più di quanto si creda. In tanti suoi scritti mostra di non accontentarsi della vulgata di un fascismo che sarebbe trasecolato definitivamente con la caduta della Repubblica di Salò o la morte del capo che per più di vent’anni lo rappresentò. Il quale, insegna Pasolini, è molto di più di una pagina nera del nostro passato, e non solo perché se ne danno oggi in più campi della vita sociale e politica rappresentazioni che mirano, in modo a volte più grottesco che macabro, a rievocarlo. Non è il fascismo da stadio o da smemorati della storia quello contro il quale Pasolini ha sempre voluto metterci in guardia. È il fascismo che s’insinua nelle nostre poco edificanti consuetudini, nelle regole non scritte del quotidiano, nei compromessi vantaggiosi, nell’immagine di una legalità duttile e nell’acquiescente e volontaria prostrazione di fronte al potere temuto, ostentato e desiderato, politico, economico o culturale che sia, nei confronti del quale, timorosi, tremanti e fiduciosi, è sempre bene essere vigili calcolatori.
Pasolini e il fascismo metastorico
Negli anni finali del boom economico, Pasolini costruisce un impietoso identikit del nostro Paese. Sulle pagine di “Vie Nuove”, una delle riviste comuniste del tempo con le quali era solito collaborare, scrive che «L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo» e che «prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo».2 Esisterebbe, perciò, un fascismo che va oltre il fascismo. Un fascismo che oltrepassa lo stretto orizzonte temporale di una precisa e compiuta parabola storica. Lo dicono, e continuano a ripeterlo, proprio quelle pagine cariche di amarezza, ma non di rassegnazione. Da allora sono trascorsi sessant’anni tondi tondi, più di mezzo secolo di storia nazionale, in buona parte vissuti senza Pasolini, orfani della sua opera e della sua geniale intelligenza. Verrebbe da chiedersi se quella fermentante marcescenza in cui ha visto precipitare l’Italia del suo tempo possa essere oggi anche una fedele rappresentazione del nostro presente. Se questa fosse la domanda, per rispondere potrebbe servire il coraggio di uno o forse più Pasolini.3
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1 «Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca» (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 105).
2 Pasolini, “Vie Nuove”, n. 36, 6 settembre 1962; anche in P. Pasolini, Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 189.
3 “Riflettiamo, ad esempio, sul significato che oggi si attribuisce alla parola “fascismo” e ai suoi vari derivati. Chi crede oggi che il fascismo (non quello di Mussolini e Alfredo Rocco, o non solo quello almeno) sia, ad esempio, una categoria dello spirito, una malattia morale o l’effetto di un imbarbarimento delle culture? Chi, se non Pasolini, ci ha dato del fascismo, combattendolo e snidandolo, il suo più sconvolgente identikit? Chi, se non lui?” (Giuseppe Pulina, Pasolini, l’inorganico, “Plico”, n. 7, giugno 2005).