Cercherò di illustrare, sinteticamente, alcune probabili conseguenze del Covid-19 sia a livello internazionale sia nazionale. È cosa certa che conseguenze, anche radicali, ci saranno. Lo prova la storia delle epidemie/pandemie del passato. Un solo esempio: Tucidide – padre della teoria realista nelle relazioni internazionali – aveva correttamente fatto derivare dalla pestilenza di Atene del 430 a.C. il declino della potenza ateniese.
La comparsa del virus è stata un “cigno nero”? Sì e no. Sì perché, di fatto, ha sorpreso tutti, e la sorpresa è una delle caratteristiche della crisi che produce stress decisionale. No perché era prevedibile, ed anche previsto. Da tempo, infatti, l’OMS aveva raccomandato misure preventive a seguito dell’esperienza SARS.
Le tendenze in atto ci mostrano una contrapposizione crescente fra le due superpotenze attuali. La pandemia è un acceleratore di tali tendenze. I mutamenti sociali sembrano seguire le stesse leggi delle epidemie. Nell’ottica del paradigma realista del potere tale contrapposizione è destinata a crescere, almeno nel breve-medio termine. È in atto anche una guerra psicologica, con la quale si cerca di sfruttare politicamente, e a fini geo-strategici, l’ansia provocata dalla pandemia.
Con il Covid-19 appare anche un nuovo aspetto della geopolitica: obiettivo del confronto fra le grandi potenze non è il territorio, ma i modelli politico-sociali capaci, più o meno, di avere la meglio sulla pandemia.
Nella guerra fredda fra USA e Cina nessuno sembra, al momento, poter prevalere. Il sistema internazionale tende così ad un disordine ancora maggior, a quel “G-Zero World” di cui parla Ian Bremmer.
Ogni previsione seria non può che partire da una teoria. Ecco perché ho fatto riferimento alla più antica e consolidata teoria del potere in un contesto anarchico.
Oggi, gli stati dati per spacciati riacquistano importanza, perché, di fronte a pericoli incombenti, si sono sempre dimostrati l’argine più resistente. Questa è la prima lezione. Ciò ha anche delle conseguenze sul piano dell’Unione europea. Nonostante qualche concreto passo in avanti, è pur sempre l’egoismo nazionale, e non la solidarietà, a far prevedere faticosi negoziati. La westlessness, e cioè l’assenza dei valori europei, si farà sentire sempre più.
A fronte della tendenza di qualche governo a scivolare verso chine autoritarie sarebbe preferibile – magari tentandone la riforma – valorizzare alcune grandi organizzazioni internazionali (come ad esempio l’OMS), le più adatte a gestire le “interdipendenze complesse”; ciò, purtroppo, resta una soluzione difficilmente attuabile.
Contro il pessimismo della ragione, però, gioca il fatto che il futuro ha una caratteristica paradossale: muta e si trasforma quando lo pensiamo. La teoria della previsione chiama questo fenomeno self- fulfilling o self-denying prophecy.
Una seconda lezione che ci impartisce il Covid-19 è la considerazione di ciò che è veramente essenziale: l’intelligence strategica, le reti di distribuzione, la logistica, il farmaceutico, l’alimentare, il digitale.
Una terza lezione impartitaci dalla pandemia è che il processo di globalizzazione – giudicato come una “perversione” della teoria Ricardiana dei costi comparati da Keynes e della “società del rischio” di Ulrich Beck – subirà una flessione ed una ristrutturazione. Difficile, se non impossibile, che il passo indietro sia radicale, dato che il processo ha origini plurisecolari ed è strettamente legato al progresso tecnologico.
Una quarta lezione riguarda l’Italia: quella dell’unità. Durante questi difficili mesi i cittadini, contrariamente ad ogni previsione, si sono dimostrati uniti, disciplinati, solidali. Non si può dire lo stesso della classe politica, priva totalmente di visione strategica.
Qualche altra considerazione per concludere.
Gli investimenti in strumenti di resilienza devono precedere le crisi. In tempi gravidi di minacce è fondamentale la centralizzazione del processo decisionale. Le comunicazioni devono essere rapide e trasparenti. Questi gli insegnamenti della SARS del 2003, recepiti solo da pochi stati (in particolare asiatici).
Di fronte alla babele delle opinioni sembra essersi rivalutato il valore della conoscenza e dell’esperienza. Ma è il politico che deve essere il tecnico della complessità. Le classi dirigenti dovrebbero esserne consapevoli e adeguare le proprie competenze.
La sicurezza – sia interna che esterna – si traduce, sempre più, in un concetto pluridisciplinare: alla tradizionale dimensione si aggiunge quella culturale, ecologica, sanitaria, eccetera.
L’economia dovrà essere sempre coniugata con la sicurezza intesa in senso globale, e la politica non dovrà essere subordinata alla finanza. In assenza di ciò non ci sarà sviluppo sostenibile e giustizia sociale.
Sarà necessario imparare a prevedere e pianificare in condizioni di incertezza. Il metodo scientifico dovrà essere usato per ottimizzare le decisioni politiche. Tutto questo può sembrare utopistico, ma senza ciò uno stato è oggetto e non soggetto di Storia.
Gli altri contributi della rubrica Diario per il nostro futuro