Dolci, paffuti, sorridenti, accattivanti, super fotografati e videofilmati. L’orgoglio e la soddisfazione, con i quali i genitori espongono i propri figli sui social media, crescono di pari passo con la frequenza con la quale foto, video e post che descrivono la vita dei piccoli di casa vengono resi pubblici come si trattasse di una storytelling quotidiana, un appuntamento studiato e imperdibile, spesso con tanto di fan tra amici e parenti, e semplici conoscenti. Il termine, immancabilmente coniato Oltreoceano, è sharenting o over-sharenting ossia una sovraesposizione dei figli, bambini o giovani preadolescenti, attraverso la pubblicazione costante di immagini, video e storie che narrano le attività dei più piccoli in ogni minimo dettaglio. È una delle tante derive del vivere sulle piattaforme sociali di condivisione, Facebook, Instagram e Twitter su tutte, un fenomeno così diffuso da spingere diversi studiosi ad un’osservazione più attenta.
Grazie ai propri genitori il debutto sul web avviene prestissimo: sempre più spesso con l’annuncio via social dell’arrivo del nascituro, magari postando la prima ecografia, e iniziando inconsapevolmente a dare forma alla sua identità digitale. Tant’è che il 93% dei bambini statunitensi è presente online entro il secondo anno di vita. E in effetti, nel 2018, il Center for Law and Information Policy della Fordham Law School ha condotto uno studio scoprendo che i data broker, le compagnie specializzate nell’aggregazione di dati sugli utenti ad uso commerciale e di marketing raccolti attraverso fonti pubbliche e private, sono in possesso di informazioni anche su bambini di appena 2 anni.
Piccoli influencer crescono: quando la sovraesposizione è un business
Le celebrità o i più noti influencer non sono i soli ad essere tacciati di esporre mediaticamente troppo i propri pargoli: lo sharenting è democratizzante e fa di ogni figlio una star del web, nel suo piccolo. Non mancano poi casi di veri e propri fenomeni: bimbi che attraverso le loro performance digitali, narrate e documentate dai grandi, diventano dei punti di riferimento; hanno successo, fino ad ottenere in alcuni casi una fama mondiale, tanto da porre dei seri interrogativi su quale sia il limite tra il semplice desiderio di raccontarsi e il prodotto di marketing.
Non a caso, nella classifica stilata da Forbes nel 2019, la star di YouTube più pagata al mondo, Ryan Kaji, ha solo 8 anni.
Quando Warhol dunque profetizzava un futuro nel quale ognuno di noi avrebbe avuto 15 minuti di celebrità non poteva immaginare si sarebbe trattato di una notorietà così duratura, e ad età precocissime.
I nostri bimbi sono dunque i piccoli rappresentanti della “Generation Tagged”, la prima generazione a dover vivere involontariamente una continua documentazione della propria esistenza sui media di condivisione sociale.
Più del 90% dei genitori pensa di essere un potenziale over-sharer
Il saggio “Il fenomeno dello sharenting nel nuovo paradigma dei rapporti genitoriali”, di Serena Volpato, riporta alcune importanti evidenze degli studi effettuati sul fenomeno. In particolare, una ricerca dell’Università del Michigan del 2015 ha fatto emergere che negli Usa oltre la metà delle madri e il 34% dei padri fanno uso dei social media per confrontarsi sui temi della genitorialità e per condividere con amici e parenti contenuti e ricordi relativi ai propri bambini. Nel 62% dei casi i genitori ammettono che lo sharenting rappresenti un modo per ridurre le proprie preoccupazioni. Più del 90% dei genitori ritiene di essere potenzialmente un over-sharer, secondo uno studio realizzato nel 2013 in Australia. L’associazione inglese Parent Zone ha invece stimato nel 2015 la produzione di circa 1.000 immagini per ogni bambino prima del compimento dei 5 anni, con una scarsissima attenzione alle impostazioni e alle opzioni relative alla privacy nelle proprie pagine social. Un fenomeno, questo, collegato fortemente anche con un analfabetismo digitale degli stessi genitori. Trascorsi già 5 anni dalla ricerca, l’incremento dell’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network, così come la produzione di video, sono aumentati in maniera vertiginosa. Quest’ultimo dato potrebbe dunque essersi raddoppiato arrivando oggi ad una media di almeno un’immagine o video postati al giorno.
Accanto a queste suggestioni, occorre riflettere su come l’abuso nella divulgazione di informazioni sui bimbi non coinvolga i soli genitori, ma anche parenti e amici, attraverso un effetto moltiplicatore non trascurabile. E pensiamo pure alle figure alle quali affidiamo i nostri piccoli: babysitter o le stesse scuole – che spesso, quelle private in particolare, hanno un profilo Facebook – potrebbero essere potenziali diffusori (autorizzati) delle loro immagini.
I rischi digitali del Coronavirus
Lo sharenting può diventare un fenomeno compulsivo
Gli studi più recenti (Fox e Hoy, 2019) hanno indagato inoltre sul ruolo della madre, individuando una maggiore vulnerabilità allo sharenting cui sarebbero esposte le neo-mamme.
Insomma, nei casi più gravi, l’over-sharing potrebbe rappresentare una sorta di forma comportamentale compulsiva, questo dal lato dei genitori. Ma le implicazioni dal punto di vista del minore, continuamente esposto visivamente, sono diverse: dalle questioni legate alla privacy e al copyright delle immagini, fino alla gamma di rischi nei quali si può incorrere in Rete e alla mancata tutela dei diritti del minore sanciti con la Convenzione di New York del 1989, nonché il diritto all’oblio.
Non mancano dunque i risvolti di tipo giuridico dello sharenting poiché, in effetti, quando i genitori condividono le informazioni sui propri figli online, lo fanno senza il consenso dei figli stessi. E neanche sono pochi gli articoli nei quali vengono raccolte storie o ricerche che raccontano lo shock e il rifiuto dei figli nel momento in cui si rendono conto di essere online con la propria infanzia sciorinata nel dettaglio attraverso le storie postate dai propri genitori (https://www.theatlantic.com/technology/archive/2019/02/when-kids-realize-their-whole-life-already-online/582916/), ricordandoci che “autogooglarsi” è ormai un modo per crescere, un rito di passaggio. Il piccolo, una volta diventato abbastanza autonomo, potrà rivedere online quanto di sé è stato reso pubblico, e potrebbe anche esserne contrariato.
Il modo in cui gli adulti divulgano immagini e dettagli dei figli è correlato al concetto di TMI o “troppe informazioni”. Anche i pediatri stanno iniziando a considerare come la condivisione influenzi il benessere dei bambini e la vita familiare.
Fake news, molestie, furto di dati: la percezione del rischio su scala mondiale
Sharenting e privacy
Il Garante della Privacy si è espresso recentemente in diverse occasioni e non solo con riguardo al corretto utilizzo delle immagini dei minori da parte dei giornalisti e dei media dell’informazione, ma richiamando anche i genitori ad un più accorto rapporto con il mondo online.
Nel GDPR (Regolamento generale sulla protezione dei dati) si fa riferimento alla tutela delle informazioni che riguardano i minori in modo specifico, sottolineando la loro fragilità e la necessità di una maggiore protezione. Viene stabilita inoltre una “età del consenso digitale” indicativamente fissata a 16 anni, ma che può essere abbassata, a seconda degli orientamenti dei diversi paesi, fino a 13 anni. Sotto questa soglia è necessario il consenso di chi detiene la potestà genitoriale per il trattamento dei dati connesso ai servizi della società dell’informazione e, in Italia, questa è stata fissata a 14 anni (decreto legislativo 101/2018). Sicuramente si tratta di un primo passo, ma la domanda rimane aperta: chi vigila sui genitori e sui possibili eccessi di una esposizione esasperata dei figli minori sul web?
Un sondaggio, condotto nel 2015 per conto del Family Online Safety Institute (FOSI), rileva che circa il 20% dei genitori, che hanno un account social, ha condiviso informazioni sul figlio che quest’ultimo potrebbe trovare in futuro imbarazzanti. Inoltre, un genitore su dieci ha ricevuto dal proprio figlio la richiesta di rimuovere un post che lo riguardava. Sempre più numerosi sono infatti i casi in cui genitori, portati in tribunale dai loro stessi figli, vengono condannati alla rimozione delle immagini “incriminate” con tanto di ammenda.
Tempi duri dunque per le mamme e i papà in caccia di like e per quanti, spesso ingenuamente ed inconsapevolmente, decidono di condividere ogni istante dell’esistenza della propria prole. Vale anche in questi casi la regola universale, buona per tutti noi: prima di postare, pensare.