Italia Paese pigro e disimpegnato. Pagnoncelli: “La realtà fa a pugni con la percezione”

Qual è il nostro livello di conoscenza della realtà, quale consapevolezza abbiamo del mondo che ci sta attorno, dei fenomeni che si verificano, delle persone e degli eventi che li ispirano, delle conseguenze che generano? Porsi queste domande non è un esercizio sterile, soprattutto se si considera che la percezione della realtà appare sempre più prevalere sulla realtà stessa, e che dobbiamo fare i conti con le illusioni dell’apparenza, con le fake news, con una opinione pubblica sempre più mutevole e manipolabile, con tutto ciò che viene esaltato ed amplificato dai social media, nostro rifugio, nostra prigione volontaria e specchio di ciò che siamo o vorremmo essere. In questo contesto, il libro di Nando Pagnoncelli, La penisola che non c’è, edito da Mondadori, diviene una guida utile nella comprensione del momento attuale e delle sue dinamiche, oltre che un testo che fa riflettere, perché il suo autore ‒ da specialista dei sondaggi quale strumento nella conoscenza della società ‒ mantiene intatta quella curiosità e quell’amore per la sociologia, per la politica, per la comunicazione che le 128 pagine del libro rendono evidente e che ne fanno uno dei massimi esperti della materia.

A giudicare dal titolo del suo saggio, La penisola che non c’è, si potrebbe avere l’impressione di vivere in un Paese inesistente, virtuale, che non ha alcuna consapevolezza di sé, che ignora la vera realtà delle cose, che non ha memoria e che preferisce immergersi nella leggerezza di una fuga, di un sogno. Ebbene, che cosa può farci svegliare, preferibilmente in modo non traumatico?
Credo che alla base di questo atteggiamento ci sia una forma più o meno consapevole di disimpegno, di superficialità, di generale pigrizia. Ma non dobbiamo disperare: è legittimo nutrire comunque un atteggiamento di speranza e di fiducia. Elementi di preoccupazione permangono, sia chiaro, e riguardano essenzialmente una sostanziale sfiducia nei confronti della politica attuale, e la scarsa partecipazione degli italiani al voto, ahimè, ne è una dimostrazione tangibile.

«L’opinione pubblica è un tiranno invisibile, intangibile, onnipresente e dispotico». Questo il giudizio, severo, della filosofa russa Helena Blavatsky. Lo condivide?
Lo condivido soprattutto per quello che riguarda la potenza dell’opinione pubblica, la sua onnipresenza, il suo carattere ondivago. Sono in molti ad inseguirla perché conoscerla vuol dire anche dotarsi di un grande potere, e proprio per questo, nei confronti dell’opinione pubblica credo si debba avere un atteggiamento di cautela, di prudenza ma anche di rispetto. Serve conoscerla per comprenderla meglio e per capire la realtà che ci circonda e la direzione verso la quale ci si muove.

La realtà e la sua percezione sembra non abbiano mai conosciuto una simile distanza. Ma su questo scollamento c’è chi ci guadagna: consenso, denaro, potere, fama. È forse per questo che non interessa a molti colmarne il divario?
Ci sarà sicuramente chi, da questa scollatura tra la realtà vera delle cose e la sua effettiva percezione, ne ricaverà dei vantaggi, ma io credo che sia più che altro il risultato di un approccio culturale, di un modo di essere, di un modo di intendere la società che appartiene alla nostra epoca, allo spirito del tempo.

Nel raffronto tra numeri e opinioni, le seconde sembra prevalgano sui primi. È solo una questione di noia, bisogno di fantasia, di rifiuto della realtà? Mai come adesso i numeri ci appaiono come dei nemici. È solo perché sono a noi sfavorevoli e impietosi?
I numeri sono notoriamente noiosi, ma ci danno la misura di tutto ciò che è, in qualche modo, quantificabile. Rifiutare i numeri o i fatti può essere per qualcuno una via di fuga. Molto più comodo è rifugiarsi nelle opinioni che confutano sia i numeri sia i fatti con la vana pretesa di poterli cambiare. Alla base vi è, ripeto, una grande pigrizia, perché modificare i propri convincimenti richiede fatica e umiltà. Abbandonare la comfort zone delle proprie credenze è una impresa ardua per molti.

Lei afferma che nella formazione delle opinioni concorrono l’esperienza diretta, il confronto reale o virtuale con gli altri, i mass media. Chi ha oggi la responsabilità maggiore?
Lungi da me ogni ipotesi accusatoria ma, sicuramente, in questa prospettiva il mondo dell’informazione ha le sue responsabilità in ordine alla sua logica mediatica che spesso semplifica e non approfondisce come si dovrebbe, non riuscendo a formare oltre che a informare, ad alimentare il dubbio e a costruire una coscienza critica.

Il sondaggio ‒ lei scrive ‒ è e dovrebbe rimanere uno strumento di conoscenza ma la tentazione permanente è quella di trasformarlo o in un oracolo o in un veicolo primario di comunicazione, ossia di orientamento e indirizzo delle opinioni…
Il sondaggio rimane uno strumento di grande utilità nei confronti del quale si ha un atteggiamento di fiducia ma anche uno di sfiducia. Un po’ come avviene con l’oroscopo, non ci credo, però… È questa la sua ambivalenza. Esiste, è vero, il pericolo che qualcuno possa trasformarlo in un oracolo o in una sentenza ma anche in questo caso, un approccio critico e una visione generale aiutano a valutarne la reale portata e i campi di utilizzo.

La centralità del sondaggio e la sua presenza nella vita di oggi non ne hanno appesantito la funzione. Ma esiste il rischio di una sua pervasività e di un eccesso nel suo utilizzo?
Il sondaggio è uno strumento che va maneggiato con cura, che solletica la nostra curiosità, il nostro desiderio di conoscere l’altro, i suoi orientamenti, le sue convinzioni ma è anche un’arma potente in grado di condizionare, influenzare, dirigere. È vero, assistiamo ad un proliferare di sondaggi in ogni campo ma penso che questo possa essere considerato anche un indizio del desidero di sapere, di conoscere, di apprendere.

“Comprereste una macchina usata da quest’uomo?” oppure, “Con quale dei due candidati andreste a bere una birra al bar?” La fiducia e la credibilità del politico che chiede il nostro voto è ancora oggi un parametro per votarlo o meno?
Sicuramente sì. La credibilità che un politico, un candidato ci ispira, per quello che dice, per quello che si propone di fare, per ciò che è, per come lo percepiamo, rappresenta un fattore decisivo per le scelte del cittadino alle urne, anche oggi, ovviamente insieme ad altri fattori.

Si è spesso parlato della volatilità delle opinioni, soprattutto in relazione ai processi politico-elettorali, con riferimento alla estrema mobilità dei convincimenti. Questo è di per sé un bene o un male? Come interpretare questa tendenza che sembra consolidarsi?
È un male nella misura in cui ciò è causa di instabilità e incertezza politica ma fa parte anche di quella sostanziale “deresponsabilizzazione” del cittadino che vuole delegare al politico il peso delle decisioni ma anche le conseguenze, evitando di partecipare in modo consapevole, con uno spirito di cittadinanza attiva alla cosa pubblica.

Come si può uscire dalla cosiddetta “democrazia del pubblico”, che ha avuto come conseguenza una personalizzazione estrema della politica, trasformando il leader carismatico in una star dello spettacolo?
La personalizzazione della politica è stata una necessità ma anche una diretta conseguenza della scomparsa dei partiti politici e del venir meno delle appartenenze politico-ideologiche. Un eccesso di personalizzazione porta al cosiddetto “uomo solo al comando”, all’eliminazione della intermediazione, con tutti i pericoli che questo può significare per la democrazia, per i diritti, per la libertà di ognuno.

Come può il cittadino-utente distinguere tra un sondaggio che cerca di fotografare nel modo più fedele la realtà e un sondaggio che la realtà vorrebbe modificarla, come fa photoshop?
Il sondaggio è uno strumento di conoscenza, con le sue procedure, i suoi meccanismi, con le sue chiavi di lettura e le interpretazioni possibili. È sicuramente una fotografia, per chi la scatta con professionalità, passione, scrupolo e serietà deontologica. Tutto il resto non è sondaggio e, soprattutto, non è realtà.

È lecito accostare il Governo giallo-verde dei selfie, dei tweet, degli slogan e della campagna elettorale permanente alla ricerca continua del consenso, ad un “prigioniero” dei social media?
ll connubio tra questo Governo, i suoi principali esponenti e il mondo dei social media è molto forte e per certi versi, oggi, non è immaginabile pensare ad un rapporto diverso. Sì, in un certo senso non credo che potrebbe fare a meno del linguaggio, delle potenzialità ma anche dei limiti dei social media, anche se volesse. L’ipermediatizzazione è una estrema conseguenza della personalizzazione della politica.

I populisti, veri detrattori della competenza, sostengono che gli esperti siano un freno per la democrazia. Come uscire, e con successo, da questo vicolo cieco?
La competenza, il sapere, la fiducia nella scienza, hanno vissuto, sicuramente, epoche più felici di questa. Oggi, devono purtroppo fare i conti con una tendenza crescente alla semplificazione, alla banalizzazione. È una circostanza che deve farci riflettere e nei confronti della quale stare attenti. Da questo vicolo cieco si esce con la scolarizzazione, con investimenti nella formazione, nella scuola, nella ricerca. È questo l’unico ed efficace antidoto al fenomeno della relativizzazione di ogni cosa.

La fine dei fatti, la scomparsa dei fatti, il trionfo delle fake news. In che modo può reagire il nostro Paese a questa deriva che mette in pericolo la nostra democrazia consegnandoci a forme di autoritarismo?
Chi alimenta in modo strategico le fake news altera la realtà e la sua percezione, minando alla base la fiducia nella democrazia che vive di trasparenza e della possibilità che i cittadini-elettori possano conoscere per decidere da chi farsi rappresentare. Questa dinamica non appartiene alla logica delle formazioni politiche populiste e del populismo che, più che una proposta politica, per me è uno stile comunicativo. Sul fenomeno delle fake news credo che sia necessaria una normativa che preveda sanzioni per chi le crea e le diffonde; un vero e proprio deterrente, nell’interesse del cittadino e, più in generale, della democrazia.

Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia, insegna Analisi della pubblica opinione all’Università Cattolica di Milano. È il sondaggista di riferimento della trasmissione televisiva “Di Martedì” e cura una rubrica settimanale sul Corriere della Sera.

 

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