Sicurezza e scandalo in magistratura, Sorgi: “Rischio per l’indipendenza dei magistrati”

Dal fenomeno del caporalato a quello del lavoro nero, passando per le infiltrazioni mafiose e della ‘ndrina, in particolare, nella regione Emilia Romagna; fino alle misure previste dai decreti “sicurezza”, e ai recenti scandali che hanno coinvolto la magistratura. Intervista a Carlo Sorgi, magistrato, Presidente della sezione lavoro del Tribunale di Bologna e membro di Magistratura Democratica e del Centro Studi Tempi Moderni.

Dott. Sorgi, ogni giorno si confronta col difficile tema del lavoro in un territorio, l’Emilia Romagna, ancora spesso considerato un’isola felice. Stanno davvero così le cose? Che genere di casi affronta?
In effetti, la regione Emilia Romagna, secondo gli indici classici, risulta ancora un’isola felice: la disoccupazione, calata dello 0,5% nel primo trimestre 2018 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (dal 7% al 6,5%), è scesa nel primo trimestre 2019 di un ulteriore 0,4% arrivando al 6,1%. Negli ultimi dodici mesi il tasso di disoccupazione regionale si colloca in Emilia Romagna sul valore medio del 5,8% (fonte: Agenzia regionale per il lavoro, report I trimestre 2019). Quello che però accomuna la realtà regionale al resto del Paese è il fenomeno del “lavoro povero”, cioè di tante persone che, pur lavorando, non riescono ad avere livelli dignitosi di vita per sé e la loro famiglia. Un numero rilevante di cause, dal mio osservatorio, sono rivolte ad ottenere livelli salariali corrispondenti ai trattamenti della contrattazione collettiva stipulata dalle sigle sindacali più rappresentative; assistiamo ad un proliferare di cooperative che sorgono e scompaiono in tempi brevissimi lasciando il posto ad altre cooperative con le stesse caratteristiche e con trattamenti economici ben lontani dal livello medio nazionale per le medesime categorie. Per non parlare del lavoro irregolare. Se pensiamo alla Riviera romagnola e alla stagione estiva, non siamo lontani nella realtà da quel girone dantesco descritto recentemente in un articolo sull’Espresso dove si parla di “lavori forzati”. Purtroppo, nonostante gli sforzi dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro, non ci sono le risorse e le energie per cercare di regolarizzare le situazioni, questo peraltro droga la concorrenza perché l’imprenditore in regola si trova a competere con chi le regole non le rispetta.

Lei si è occupato anche di caporalato. Magistratura Democratica ha voluto aprire il suo ultimo Congresso nazionale incontrando, presso il tempio Sikh di borgo Hermada, a Latina, decine di braccianti indiani esposti a sfruttamento e caporalato. Una scelta coraggiosa di questi tempi. Il reclutamento illecito di manodopera sembra caratterizzare anche l’Emilia Romagna. Come è la situazione dal suo osservatorio e come intervenire in maniera risolutiva?
Il caporalato in Emilia Romagna è una realtà oramai conosciuta: dal processo Aemilia si è squarciato un velo evidenziando non solo infiltrazioni, ma anche comportamenti diffusi in tutti i settori, come denunciato dalla Flai Cgil regionale e dalle pubblicazioni di Libera Bologna e Libera Informazione con il dossier R.I.G.A. (Report e Inchieste di Giornalismo Antimafia) “Caporalato emiliano”. Come magistrato del lavoro e segretario regionale di Magistratura Democratica mi sono impegnato per inaugurare il nostro Congresso nazionale il 28 febbraio di quest’anno nel tempio Sikh di borgo Hermada per testimoniare la nostra vicinanza, insieme con Libera, Flai Cgil e In Migrazione, ai lavoratori sfruttati e per dire, senza mezzi termini, da che parte stiamo. Nei nostri uffici il fenomeno nella sua complessità non arriva, l’art. 18 TU immigrazione è questione da Procura della Repubblica. Però stiamo lavorando per creare una rete che consenta risposte anche a situazioni magari meno eclatanti, ma non per questo meno odiose di sfruttamento del lavoro. Per risolvere il fenomeno del lavoro sfruttato ci vuole una precisa volontà politica e, come prima condizione, un comune impegno che oggi non vedo nella nostra società.

La legge 199/16 è stata scritta per combattere il caporalato. Esistono però volontà dichiarate anche a livello istituzionale di volerla cambiare. Qual è la sua opinione su questa norma? Sta funzionando?
La legge 199\2016 è sicuramente perfettibile, particolarmente nella parte positiva che non è sostanzialmente attuata ma che costituisce un corpo unico nella idea del legislatore. Dire, oggi, però che si vuole cambiare la legge risulta pericoloso perché manda un messaggio di rinuncia all’impegno in questo settore vitale per la credibilità democratica del nostro Paese. Pensare che ci siano realtà dove si realizzano forme di schiavismo ‒ come confermato dall’ormai famoso Rapporto dell’ottobre 2018 della dottoressa Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù ‒ deve rappresentare uno stimolo per lavorare meglio in questo settore ma senza rinunciare a quello che, comunque, è stato conquistato di positivo in termini legislativi. Prima di dire che una legge non funziona, occorre in primo luogo indicare il profilo di mal funzionamento e, in secondo luogo, precisare le modalità che si intendono utilizzare per modificare la parte della normativa non adeguata. Solo così si crea informazione vera, altrimenti è mera demagogia.

Dal caporalato alle mafie. Il processo Aemilia ha certificato la presenza di mafie e ‘ndrine pericolossime in Emilia Romagna. Le mafie hanno ormai messo stabilmente piede anche in quella Regione? Che cosa fare?
Alcuni anni fa (era il 2010), durante la trasmissione Vieni via con me di Fazio e Saviano, lo scrittore napoletano parlò della criminalità organizzata al Nord suscitando la reazione indignata di alcune forze politiche che si riconoscevano, allora, come elettorato di quelle realtà geografiche. Era già chiaro che la criminalità organizzata interviene per investire i lucrosi guadagni delle attività criminali nelle realtà dove c’è maggiore ricchezza e dove gli investimenti possono rivelarsi maggiormente produttivi. Purtroppo, la lezione che viene dalla storia e che si riassume con la frase pecunia non olet vale anche per quei territori, come l’Emilia Romagna, nei quali si riteneva ci fossero adeguati anticorpi di civiltà e di legalità. Ed allora bisogna ripartire da questa considerazione e lavorare con le giovani generazioni per fare in modo che la lezione di legalità, che arriva da alcune realtà, sia efficacemente trasmessa e costituisca un patrimonio indissolubile.

La magistratura è sempre più al centro del dibattito pubblico nazionale. Uno dei casi più recenti e difficili, anche per il livello istituzionale che ha coinvolto, è quello riguardante le nomine nel Csm. Qual è la sua opinione sul caso? Si tratta, secondo lei, di una prassi consolidata quella di spartire nomine e poteri ai vertici della magistratura? E come uscirne?
È drammatico quello che è venuto fuori dalle recenti intercettazioni ambientali nell’ambito dell’inchiesta che ha riguardato Palamara, già presidente Anm e membro Csm, alcuni politici e membri del Csm fino a colpire recentemente anche il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, la seconda carica nella magistratura e membro di diritto del Csm. Questa vicenda mina la credibilità dell’intera magistratura e non serve per l’opinione pubblica far presente che, proprio grazie all’attività di altri magistrati, tutto questo è venuto fuori. Francamente non credevo, pur conoscendo e combattendo contro logiche spartitorie, che si arrivasse a livelli così bassi. Il grande rischio è quello di vedere un fronte unito che vuole abbattere l’autonomia della magistratura, vero baluardo per la vita democratica di un paese, puntando sulla separazione delle carriere (leitmotiv dell’Avvocatura) o sulla nomina controllata dal potere politico dei membri del Csm. Se ne uscirà se la magistratura, nel suo insieme, sarà capace di ritrovare le fila di un discorso che ha nella trasparenza e nel rispetto delle regole i dati fondamentali. Non è facile ma ne va della nostra credibilità come magistrati e, ancora più importante, della tenuta dell’intero sistema democratico del Paese.

I decreti “Sicurezza e Sicurezza bis” hanno sollevato critiche molto importanti. Qual è la sua opinione? Quali sono gli elementi più critici di questi provvedimenti e perché?
Fondamentalmente vedo, attraverso i decreti “sicurezza”, la volontà di lanciare dei messaggi per concentrare l’attenzione su quel tema e distoglierla dai veri problemi del Paese ‒ penso al lavoro e più in generale alla condizione finanziaria italiana. Quello che colpisce è il disinteresse alla gerarchia delle fonti: da questo punto di vista l’ordinanza di Agrigento ristabilisce alcuni criteri basilari (La “scandalosa” ordinanza con la quale la GIP di Agrigento non ha convalidato l’arresto della capitana della Sea Watch e ne ha disposto la rimessione in libertà costituisce un raggio di luce che squarcia un orizzonte cupo, scrive Domenico Gallo su Volerelaluna). All’indomani del primo decreto sicurezza Livio Pepino, uno dei più attenti osservatori della politica legislativa del Paese, scriveva su Questione Giustizia: «L’unitarietà e l’interna coerenza del decreto e del complessivo intervento legislativo rendono evidente che sarebbe riduttivo e sbagliato considerarli come una semplice esibizione muscolare di un leader populista (come oggi si usa dire) alla ricerca di consenso attraverso lo sfruttamento dell’insicurezza diffusa. C’è senza dubbio questa componente ma, insieme, si staglia una linea di politica criminale, di politica sociale e di politica tout court… Una legge contro i poveri, migranti o autoctoni, dunque»; rispetto al conflitto descritto, chiamava in causa inevitabilmente i giudici, ricordando come le scelte giurisprudenziali determinino effetti sulla vita di migliaia di persone. In questo momento di forte tensione per la magistratura, l’intera società deve affrontare una prova veramente difficile.

A questo riguardo, tre sue colleghe, i giudici Rosaria Trizzino, Presidente della seconda sezione del Tar della Toscana; Matilde Betti, Presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna e Luciana Breggia, magistrato del tribunale di Firenze, sono state duramente criticate per la loro attività svolta, considerata contraria alle prescrizioni normative vigenti e alla volontà governativa. Qual è la sua opinione?
Una prima osservazione di genere si impone e riguarda la bellissima figura, in termini di rispetto della legalità e del coraggio istituzionale delle colleghe. Non credo, personalmente, che le notizie circolate sull’attività di dossieraggio o gli attacchi polemici possano in qualche modo scalfire Rosaria, Matilde, Luciana e Alessandra (le sento più che colleghe e sono orgoglioso di loro) perché sono professionalmente attrezzate ad affrontare tali avversità. Vedo piuttosto un messaggio per le generazioni più giovani, le colleghe ed i colleghi meno esperti: il tentativo di incutere il timore che con scelte giurisprudenziali in linea con i princìpi costituzionali e in dissonanza con la volontà politica della maggioranza, la strada della loro professione possa diventare un’impervia salita, lastricata di difficoltà e rischi. In questo, vedo un grande rischio per l’indipendenza di giudizio dei magistrati.

Ci dice tre cose fondamentali che si sentirebbe di raccomandare ad un giovane magistrato italiano che sta per iniziare questo delicatissimo ruolo nell’Italia di oggi?
Ad una giovane magistrata o un giovane magistrato, ricorderò la riflessione di un artista (De Gregori della “leva calcistica del ‘68”) che richiama il coraggio, l’altruismo e la fantasia. Oggi, per fare bene il nostro mestiere, ci vogliono queste tre doti, insieme ad una grande dose di buon senso che non vuol dire omologazione ma contatto con la realtà.

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