Nell’àmbito delle opinioni raccolte per la realizzazione del Secondo Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes, pubblichiamo l’intervista al Prof.
Professore, come valuta i livelli di spesa pubblica che l’Italia destina all’istruzione?
Le risorse dedicate alla scuola sono inadeguate. Non dico purtroppo nulla di nuovo facendo questa affermazione, il problema è antico. Lo scenario si presenta complesso e molto articolato. Credo che la scuola, di ogni ordine e grado, abbia bisogno in questo delicato momento storico, di un’attenzione specifica che non ha mai avuto, oltre che di investimenti oculati: ne va del futuro di tutti. Fatta questa premessa generale, va anche detto che la scuola dell’obbligo ha tradizionalmente goduto di maggiori risorse rispetto alla formazione superiore. Uno sbilanciamento comprensibile se si considera che è quella la fucina essenziale, la prima frontiera di rapporto con il sapere. L’analfabetismo e l’ignoranza li abbiamo superati tardi, come la storia ci insegna, grazie alla istituzione dell’obbligo scolastico. Non è però ammissibile che il supporto allo studio e alla ricerca si allenti, man mano che si va avanti nel percorso scolastico, perché un paese che non investe nella cultura è un paese destinato al declino. Non dimentichiamoci che le classifiche internazionali vedono l’Italia lontana dai primi posti delle classifiche in materia di istruzione, soprattutto se si prende in considerazione il rapporto docenti-studenti. Unica isola “felice” ancora una volta la scuola dell’obbligo, che a partire dalla riforma che ha avviato il superamento del maestro unico, ha rafforzato il corpus degli insegnanti.
Per quale ragione la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio il mondo scolastico?
La risposta è semplice: la scuola non ha un potere contrattuale rispetto alla classe politica, che si accorge di quello che avviene tra i banchi quando, in seguito a qualche sciopero, le famiglie cominciano a protestare non avendo a chi affidare i figli una volta interrotta l’attività didattica. La cosa più grave risiede nel fatto che la classe politica sembra non avere nessuna consapevolezza dell’importanza che gli investimenti nella scuola hanno per il Sistema-Paese. Da circa trent’anni la competitività dell’Italia ha avuto, non a caso, una flessione evidente. Il motivo lo si può individuare nell’attenzione solo strumentale che è stata dedicata alle riforme scolastiche.
Arriviamo a un nodo centrale su cui vorrei che Lei si soffermasse: le tante riforme che sono state messe in cantiere nell’ambito dell’istruzione, hanno lasciato un segno positivo? L’autonomia scolastica, passaggio sicuramente importante, quali novità ha apportato?
Le riforme sono state purtroppo molto spesso delle “bandiere” agitate per andare all’incasso del mercato politico e guadagnare qualche consenso in più. Atteggiamento, questo, che trasversalmente ha riguardato tutte le forze politiche, senza distinzione. Va ricordato il lavoro dell’ex ministro Luigi Berlinguer, persona di grande cultura che ha introdotto il principio dell’autonomia nel mondo della scuola. Un progetto e un programma importante quello portato avanti dall’ex rettore dell’Università di Siena che però è rimasto parzialmente imprigionato da modelli pedagogici astratti. Questo aspetto, insieme all’influenza dei sindacati, che hanno operato a difesa dei diritti degli insegnanti, non interpretando sempre bene le esigenze di tutti gli attori che si muovono nella scuola, ha costituto una criticità, che ha rallentato, quando non neutralizzato del tutto, ogni disegno riformista.
Mi pare di cogliere dalle sue parole una critica, neanche tanto velata, alla politica, incapace di dare effetto concreto a progetti sulla carta apprezzabili. È una lettura corretta?
La classe politica ha avuto un certo timore in tema di autonomia scolastica. Timori non del tutto infondati a mio avviso. Era stato il ministro Antonio Ruberti, con la legge 168 dell’89 a introdurre l’autonomia nell’ambito della formazione universitaria, come previsto dalla Costituzione. Per “simpatia” ‒ utilizzo il senso etimologico del termine ‒ era necessario che anche nella scuola si sperimentassero modelli organizzativi nuovi. Un elemento fondamentale è stato però trascurato.
A cosa si riferisce?
Autonomia deve far rima con responsabilità. Consentire lo sviluppo di dinamiche autonomistiche senza una puntuale valutazione dei risultati crea dei dissesti, come poi di fatto è avvenuto. L’autonomia si differenzia dal centralismo proprio perché si sviluppa sulla scia di alcune linee guida e presuppone l’attuazione dell’accountability. Detto in termini semplici: bisogna porsi il problema di controllare chi esercita l’autonomia. Fabio Mussi, ministro nel secondo governo Prodi, con la creazione dell’ANVUR, l’Agenzia preposta alla valutazione delle strutture in cui operano i docenti dell’ambito universitario, ha cercato di dare una risposta a questa esigenza, ritengo che anche la scuola dovrebbe andare avanti su questo percorso. Se non c’è un corretto equilibrio tra autonomia e responsabilità ‒ ritorno su questo elemento che mi pare cruciale ‒ l’autonomia si trasforma infatti in “licenza” e a trarne vantaggio non sarà certo la preparazione dei nostri figli.
È possibile che non si riesca a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e la buona volontà del singolo docente?
Senza un puntuale verifica dei risultati, non si può mettere in campo un modello di sistema che vada oltre la buona volontà dei singoli professori. Il nodo centrale rimane, a mio giudizio, il rapporto tra l’istituzione scolastica e le famiglie. Nel 1968 avevo 18 anni, stavo per prendere la maturità al liceo Arnaldo da Brescia, città dove sono nato e cresciuto. La critica, che all’epoca veniva fatta al corpo docente, non era del tutto ingiustificata. L’autorità non si coniugava sempre con l’autorevolezza. Proviamo a fissare questi concetti, che sono molto utili per capire la scuola di oggi. Una cosa è l’autorità che viene dall’essere inseriti in una struttura nella quale si ha un ruolo di governo o di gestione, altra cosa è l’autorevolezza. Negli anni della “rivolta studentesca” con una certa frequenza l’auctoritas non è andata a braccetto con l’autorevolezza dei docenti. Questo accadeva all’Università, come anche alle scuole medie inferiori e superiori.
Eppure, maestri che hanno fatto da punto di riferimento per generazioni ce ne sono stati, non tutto era da rifondare, non crede?
Sicuramente, maestri ce ne sono stati, anche particolarmente apprezzabili sul piano della preparazione. Avveniva però che certi modelli culturali venivano imposti senza che ci fosse la capacità di argomentarne la validità. La situazione oggi si presenta capovolta. I docenti validi sono la maggior parte, e possiedono quel “quid” di autorevolezza che dovrebbe garantire la possibilità di un esercizio di autorità necessario in un mondo come quello della formazione. A fronte di questo, assistiamo al fenomeno delle famiglie, che sono “sindacaliste” dei figli. Impensabile anni fa. Oggi, l’insegnante agli occhi dei genitori ha sempre torto, qualsiasi provvedimento prenda. Una tendenza che sta emergendo in modo preoccupante, basta leggere i giornali per averne un’idea. La cronaca racconta di professori colpiti in classe, oltraggiati, mortificati, di aule trasformate in far west bonsai con lancio di oggetti e freccette. A questo si aggiunge una sorta di deficit di coraggio, che si manifesta nell’incapacità di affermare e difendere il proprio ruolo da parte degli insegnanti. Il mondo della scuola non può accettare questa deriva.
Si impone un tema relativo alla formazione dei docenti, quando parliamo di consapevolezza del ruolo, di autorità e di competenza. Anche su questo se ne parla molto e poi…?
La questione che lei solleva è un altro grande “cantiere” colpevolmente trascurato. L’unico che ha tentato di fare qualche cosa in questa direzione, al di là delle simpatie e degli errori commessi, è stato l’ex premier Matteo Renzi con la “buona scuola”. Riprendo il capitolo riforme: quella renziana ha cercato di impostare in maniera coerente il percorso di formazione propedeutico all’entrata in ruolo dei docenti. È durata purtroppo molto poco questa fase, perché, come spesso accade, chi arriva al Governo azzera tutto quello fatto prima, le cose cattive, ma ahimè anche le buone intuizioni.
Si parla spesso della necessità di ridurre il divario Nord/Sud anche nel campo della formazione. Oltre alla differenza geografica, bisogna guardare alle periferie, alla complessa articolazione dei quartieri, ai contesti urbani ed extraurbani, punteggiati da diseguaglianze crescenti, alle aree del disagio. Cosa si può e si deve fare per “ricucire” un Paese ancora drammaticamente frammentato come il nostro?
Lo storico divario che separa Nord e Sud è solo parte di un problema più grande di cui stiamo parlando. Se persino al livello delle classi medio-alte della società non si avverte la volontà di gettare un ponte tra la scuola e le famiglie, se permane la contrapposizione, se la dinamica di conflittualità prende il sopravvento, c’è da preoccuparsi. Penso, in particolare, a quello che accade in molte aree soprattutto del Mezzogiorno in contesti degradati dove la dispersione scolastica è purtroppo norma, non eccezione. Nei territori con molta dispersione la scuola diventa irrilevante sul piano della formazione, fenomeno che si verifica anche nelle zone periferiche delle grandi città del Nord. Dunque la ricucitura, cui si fa riferimento nella domanda, deve partire da un riavvicinamento tra famiglie e Istituzioni scolastiche. Torno alla questione autonomia: il ruolo della dirigenza diventa centrale in questo scenario. Formare un ceto di dirigenti scolastici di livello e dare loro la necessaria autonomia, sottoponendo a verifica la loro azione, sarà lo snodo decisivo per il prossimo futuro.
Come incidono i cambiamenti demografici sul nostro sistema scolastico italiano?
Tutti abbiamo visto cambiare, in tempi relativamente brevi, il tessuto demografico delle nostre aule. A essere vuote non sono solo le culle, l’emigrazione intellettuale in crescita esponenziale sta infatti provocando un depauperamento gravissimo della società nel suo complesso. Vanno via dall’Italia forse non i migliori, come spesso si è portati a pensare, ma sicuramente i più motivati. Si intrecciano più componenti, nell’orizzonte di un fenomeno, come quello delle migrazioni, che non può essere affrontato in poche battute. Mi limito in questa sede a dire che la classe politica non può ignorare la gravità di una delle grandi questioni del nostro tempo. Paradossalmente, malgrado la gravità della situazione, va detto che la nostra scuola, nonostante tutto, continua a formare eccellenti professionisti che vanno oltre frontiera, perché richiesti. Esportiamo medici, ingegneri, fisici. Osservando i primi flussi Erasmus in entrata e in uscita, al di là delle difficoltà linguistiche che hanno la loro incidenza, mi sono accorto negli anni in cui ero Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, che la preparazione media dei nostri allievi era superiore rispetto a quella degli studenti che ospitavano in Ateneo. Purtroppo, il degrado di questi ultimi tempi, che riguarda la qualità della formazione sia nelle scuole italiane che nelle Università (i dati PISA e INVALSI più recenti parlano chiaro) angoscia. Fenomeni come la povertà linguistica e l’incapacità di comprendere testi anche molto elementari, anche in studenti che hanno superato la maturità, preoccupano molto un “vecchio” studioso come me, che ha insegnato per molti anni al liceo prima che all’Università.
Le tecnologie sono concausa di questa povertà linguistica?
L’uso delle tecnologie richiede competenza, considerazione che vale per tutti gli strumenti. Stiamo perdendo l’uso della memoria, smanettando con i telefonini e i pc. Abbiamo trasferito tutto alla macchina, imparare una poesia sembra un esercizio impossibile. Mnemosine era la madre delle Muse, non scordiamolo mai. Quindi sì all’uso equilibrato, purché sia l’uomo a guidare la macchina. Se alla fine delle scuole medie abbiamo tanti studenti che non riescono a scrivere correttamente e a esprimersi in un italiano fluente, è lì che dobbiamo intervenire, poi penseremo anche a dare il computer.
A proposito di scuola primaria e secondaria di primo grado, sono adeguate per strutture e qualità formativa a fornire basi solide nelle diverse discipline per preparare gli alunni a compiere il “salto” alle superiori? Le superiori, a loro volta, preparano gli allievi per l’Università?
Dal 1980 insegno all’Università. Oggi arrivano a iscriversi studenti con un livello di preparazione inaccettabile. Mi riferisco al livello medio, perché ci sono giovani straordinari. Si parla molto dell’insegnamento di Don Milani, credo sia giusto richiamare l’esperienza di una figura che ha segnato un’epoca. Attenzione però a interpretare correttamente il suo insegnamento. La scuola non deve essere di classe, bisogna fare ogni sforzo per aiutare i più deboli, ma non crediamo che li si aiuti rendendo tutto più facile.
Quale sarà la principale sfida che la scuola italiana dovrà affrontare nei prossimi anni?
La formazione di qualità, per usare una formula sintetica. Formazione che una volta per tutte deve sfuggire alle tentazioni di soggiacere a ogni tentazione demagogica. Avere più laureati è importante, però non a scapito della qualità della laurea. Stesso ragionamento va fatto per la maturità. Un traguardo che deve raggiungere una platea crescente di studenti, senza andare al di sotto della decenza, altrimenti le conseguenze le pagheremo negli anni. Mi faccia citare in conclusione De Gasperi, che sottolineava come un vero statista guarda sempre alle generazioni future, il politicante guarda invece alle prossime elezioni. In un campo strategico, come quello del sapere e dell’istruzione, se continueremo a fare scelte politiche guardando ai sondaggi, non andremo molto lontano.