Settembre è tornato, e con lui il suono familiare della campanella che richiama milioni di studenti italiani sui banchi di scuola e migliaia di insegnanti dietro le cattedre. Questo momento segna un nuovo inizio, un mix di speranze, buoni propositi e, per qualcuno, un pizzico di inevitabile svogliatezza. Gli alunni si preparano a riprendere i loro percorsi di apprendimento, ma che cosa dire degli insegnanti? Con quale spirito affrontano questo nuovo anno scolastico, carico di sfide e aspettative? La risposta non è affatto semplice né univoca. Tuttavia, analizzare il nostro sistema scolastico può darci qualche indizio sul contesto in cui vivono i docenti italiani e sulle criticità che quotidianamente affrontano. Uno sguardo sulla situazione dell’istruzione italiana, soprattutto a confronto con gli altri paesi industrializzati, ci viene offerto dall’OCSE che, il 17 settembre scorso, ha pubblicato il report “Education at a Glance 2024”, appuntamento annuale che offre un approfondimento sullo stato dell’istruzione nel mondo, analizzando tutti i livelli di istruzione e fornendo dati relativi ai risultati conseguiti, alle iscrizioni, agli aspetti finanziari, e all’organizzazione dei sistemi formativi.
In Italia la spesa pubblica destinata all’istruzione si attesta al 4% del Pil, inferiore rispetto alla media Ocse del 4,9%
Uno degli aspetti che emerge subito come fra i più delicati del nostro sistema scolastico è la spesa pubblica destinata all’istruzione, un indicatore fondamentale per valutare l’equità nell’accesso e la qualità della formazione. In Italia, la spesa pubblica destinata all’istruzione si attesta al 4% del Pil, una percentuale inferiore rispetto alla media Ocse del 4,9%. Questo dato, se da un lato riflette le difficoltà strutturali che da anni affliggono il nostro Paese, dall’altro solleva profonde preoccupazioni riguardo alla capacità del sistema educativo di rispondere alle esigenze di una società in evoluzione. Quando parliamo di spesa per studente, le criticità diventano ancora più evidenti. Per l’istruzione primaria, che include anche l’educazione prescolare e le scuole secondarie di primo grado, l’Italia riesce a posizionarsi abbastanza bene, occupando un incoraggiante decimo posto nella classifica Ocse con una spesa di 13.799 dollari per studente, rispetto a una media di 11.902 dollari. Tuttavia, questa positività si perde man mano che si sale di livello: per l’istruzione secondaria, la spesa scende a 11.739 dollari per studente, molto al di sotto della media Ocse di 13.324 dollari e ancor meno rosea è la situazione nell’istruzione terziaria, per la quale l’Italia investe solo 13.717 dollari per studente, rispetto a una media Ocse di 17.559 dollari.
Più della metà degli insegnanti italiani ha oltre 50 anni
Un’altra caratteristica distintiva del sistema scolastico italiano è il rapporto numerico tra studenti e insegnanti. Con 11 studenti per docente, sia nelle scuole primarie che in quelle secondarie di primo grado, e 10 studenti per docente nelle scuole secondarie di secondo grado, l’Italia si colloca ben al di sotto della media Ocse, che è rispettivamente di 14, 13 e 13 studenti per docente. Si tratta senza dubbio di una condizione sotto molti aspetti positiva: meno studenti per classe significa più attenzione per ciascuno di essi, maggiore personalizzazione della didattica, più spazio per costruire relazioni umane autentiche tra alunni e insegnanti. Ciò nonostante, questo beneficio è accompagnato anche da un costo significativo in termini di spesa per la retribuzione dei docenti in rapporto al numero di studenti. Inoltre, seppur non strettamente correlato alla tematica educativa, questo dato non può non farci riflettere sul processo di invecchiamento che sta investendo la popolazione italiana; invecchiamento che si ripercuote anche sull’età media del corpo docente. Più della metà degli insegnanti italiani ha oltre 50 anni, un dato che ci pone tra i paesi più anziani dell’area Ocse, evidenziando una difficoltà cronica nel rinnovamento generazionale in cui i giovani faticano a entrare stabilmente nel mondo dell’insegnamento, intrappolati tra procedure concorsuali lunghe e contratti spesso precari.
La situazione economica degli insegnanti italiani richiede una riflessione profonda poiché incide sia sulla scelta che sulla motivazione
Anche la situazione economica degli insegnanti italiani richiede una riflessione profonda poiché la soddisfazione economica incide sia sulla scelta iniziale di intraprendere una determinata carriera e permanere in un settore, sia sulla motivazione e l’impegno con cui ci si dedica al proprio lavoro. Gli stipendi dei docenti italiani sono più bassi rispetto alla media: un insegnante alla scuola primaria in Italia guadagna circa 35.565 dollari all’inizio della carriera, contro una media Ocse di 40.060 dollari. E, se la retribuzione iniziale è bassa, quella massima è ancor più deludente soprattutto considerando che per raggiungerla è necessario aspettare ben 35 anni di carriera, molto più della media di 26 anni circa calcolata su tutti i paesi Ocse. Inoltre, sebbene gli stipendi nominali tabellari siano aumentati dell’8% fra il 2015 e il 2023[1], tale aumento non ha compensato la crescente inflazione, portando in termini reali ad una diminuzione del 6%, a fronte di un aumento medio del 4% rilevato nei paesi con dati disponibili.
Gli stipendi dei docenti italiani sono più bassi rispetto alla media Ocse e devono combattere con la crescente inflazione
Altro aspetto della professione degli insegnati da tenere in considerazione è la quantità di ore di dedicata all’insegnamento e al resto delle attività di cui un docente è chiamato ad occuparsi. In Italia, i docenti della scuola primaria devono insegnare in media 766 ore all’anno, un dato leggermente inferiore alla media Ocse di 773 ore, e le ore di insegnamento sono inferiori alla media anche nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Tuttavia, guardando alla sola Europa, i valori italiani risultano superiori alla media soprattutto per le ore di insegnamento nelle scuole primarie (766 contro 703). A queste ore occorre aggiungere il tempo dedicato alla preparazione delle lezioni, alla correzione degli elaborati, alla gestione amministrativa e al contatto con i genitori. La complessità del lavoro degli insegnanti non si misura infatti solo in termini di ore passate in classe, ma anche in termini di qualità del tempo dedicato agli studenti e al miglioramento del percorso educativo, alla formazione personale, alle attività di tutoraggio e all’impegno in attività extracurricolari. Tutte attività che richiedono un impegno costante e spesso non adeguatamente riconosciuto, la cui quantificazione in ore di lavoro resta molto difficile, ma che devono necessariamente essere prese in considerazione nella valutazione dell’impegno richiesto agli insegnati.
L’istruzione non è inclusiva se solo il 20% dei bambini provenienti da famiglie a basso reddito ha accesso a strutture per l’infanzia
Un’analisi esaustiva del sistema scolastico e dell’ambiente in cui docenti e studenti si confrontano quotidianamente non può trascurare il tema dell’equità e dell’inclusione. Uno degli indicatori fondamentali per valutare la capacità del sistema di rispondere ai bisogni educativi dei più deboli e di ridurre in partenza le disparità, è la possibilità di accesso all’educazione della prima infanzia in particolare per i bambini provenienti da famiglie svantaggiate. Il 95% dei bambini italiani partecipa all’educazione prescolare un anno prima dell’inizio della scuola primaria, un dato in linea con la media Ocse, ma dietro questo dato si nasconde una realtà molto più complessa. Solo il 20% dei bambini tra 0 e 2 anni provenienti da famiglie a basso reddito ha accesso a strutture per l’infanzia, rispetto al 49% dei loro coetanei di famiglie più abbienti, evidenziando l’inadeguatezza delle politiche di sostegno alle famiglie.
Le studentesse italiane hanno risultati scolastici migliori dei coetanei maschi ma si scontrano con ostacoli che ne limitano l’accesso al mondo del lavoro
Un discorso a parte meriterebbe il tema della disparità di genere, che in Italia continua a rappresentare un nodo critico in tutti i settori, dall’istruzione al mercato del lavoro. Le studentesse italiane tendono a conseguire risultati scolastici migliori rispetto ai loro coetanei maschi in tutti i cicli di studi, ma terminata la formazione continuano a scontrarsi con ostacoli culturali e strutturali che ne limitano l’accesso al mondo del lavoro, riducendo le loro prospettive di carriera e di guadagno[2]. Ci sono poi i NEET[3], giovani usciti dai circuiti di formazione scolastici o professionali che non sono in alcun modo inseriti nel mercato del lavoro. Il fenomeno, pur registrando un calo rispetto al 2016 (-11%), continua a destare preoccupazione e sta mettendo in luce un ulteriore aspetto del divario di genere. Il 21% dei giovani tra i 20 e i 24 anni non studia, non lavora e non segue percorsi formativi, ma il problema diviene particolarmente acuto tra le giovani donne di età compresa tra i 25 e i 29 anni, tra le quali il tasso di NEET è del 31%, rispetto al 20% degli uomini. Le giovani italiane dunque, nonostante il loro impegno e i titoli di studio conseguiti, trovano ancora troppe barriere nel mercato del lavoro e troppo spesso restano intrappolate in una condizione di inattività.
Un Paese che continua ad investire poco nell’istruzione ci allontana da quel futuro equo e sostenibile che popola le agende politiche
Settembre, con il suo richiamo ai banchi di scuola, rappresenta ogni anno una nuova occasione di riflessione sul nostro sistema educativo e, il report “Education at a Glance” ci impone di riconoscere l’esistenza di ancora troppe criticità e zone d’ombra. Una scuola che invecchia, in un Paese che continua ad investire poco nell’educazione, in cui gli insegnati non sono valorizzati né economicamente né socialmente e dove i divari sono parte integrante del sistema. Questo è il ritratto ci restituisce l’Ocse con il suo sguardo sul sistema formativo italiano. Forse è ora di prendere atto che, ogni ulteriore passo in questa direzione, ci allontana da quel futuro equo e sostenibile che popola tutte le migliori agende politiche.
[1] Valore calcolato sui docenti di scuola secondaria di primo grado.
[2] In media, le donne laureate nell’area Ocse guadagnano l’83% del salario percepito dai corrispettivi maschili, in Italia si scende al 58%, registrando il divario salariale più alto dell’intera area Ocse.
[3] Acronimo di Not in Education, Employment or Training