La città verde, realtà o utiopia?

La frattura tra città e campagna ha provocato, nei secoli, gravissimi danni al tessuto comunicativo e sociale. Sebbene la città abbia solitamente avuto un piano regolatore, accompagnato da un ordito complesso di prescrizioni nel quale si articolano competenze distribuite a vari livelli, tuttavia, le comunità, tanto in centro che in periferia, sono rimaste spesso prive di quella attrezzatura culturale richiesta ai fini della continuativa ricerca della propria identità, risultando del tutto vana la conservazione delle relazioni tra persone e l’ambiente socio-culturale da cui si è partiti.

Occorre, invece, rivalutare proprio la cultura e riprendere in mano i princìpi e i meccanismi delle autonomie e del decentramento – oggi si direbbe meglio del federalismo – non tanto sul versante degli studi dei costituzionalisti attenti alla direzione, dall’alto verso il basso, dei meccanismi di attribuzione delle competenze, quanto dal lato delle prospettive che annunciano l’interesse ad una mutata organizzazione secondo schemi e moduli riconosciuti dal corpo sociale.

Il divorzio tra tutela del paesaggio e urbanistica ha, del resto, innescato diversi fattori di disgregazione, sulla base di un coacervo di disposizioni poco o per nulla coordinate tra loro, che hanno dato vita ad un sistema stratificato di competenze e funzioni in conflitto.

Le qualità paesaggistiche risultano, sotto questo profilo, l’esito di un processo finalizzato a massimizzare la responsabilità politica degli amministratori locali sul piano delle condizioni di decollo dei territori e della relativa capacità di competere, facendo leva sull’identità e accettando differenze e peculiarità delle singole aree territoriali.

Le immagini di sghembi montaggi di capannoni o di torri eoliche e di pannelli solari localizzati in modo casuale senza alcuna osservanza del contesto paesaggistico in cui sono inseriti o per la stessa architettura tipologica a cui restano asserviti, dichiara un diffuso e (in)consapevole deprezzamento delle caratteristiche dei luoghi oltre al rischio di delocalizzare investimenti diversamente attratti dai talenti e dalle idee di sviluppo che si appuntano sulle tradizionali risorse ad essi collegate.

Il disegno compositivo è, per ciò, fallito, dove gli amministratori locali hanno assunto il territorio in termini di superfici funzionali ad un programma produttivo decontestualizzato. E da questa mancata presa di posizione circa il rapporto che esiste tra le pratiche dell’agire economico, l’accumularsi dei saperi e la rappresentazione dei valori della cultura possiamo far discendere il disordine che ha investito la gestione dell’uso del territorio e la tolleranza verso ripetuti fenomeni di abusivismo e di speculazione, che nessuna attenzione hanno riservato all’agricoltura.

In questo processo di ricomposizione della frattura tra l’urbano ed il periurbano, l’agricoltura merita una posizione privilegiata nelle attività di pianificazione che coinvolgono i cittadini quali diretti interessati al governo del territorio. Infatti, essa costituisce l’anello di congiunzione tra città e campagna e può svolgere un ruolo fondamentale «in termini di coesione sociale, di tutela ambientale, di qualità della vita, di espressività non solo di una nuova antropologia urbana, ma delle stesse “forme” architettoniche della città…» [Adornato 2013].

Nell’affidare all’agricoltura il ruolo di capofila nella ricostruzione ambientale delle città occorre evitare, in ogni caso, il rischio di riempire casualmente spazi da convertire in chiave ecologica senza che sia stato previamente elaborato un progetto di trasformazione dell’intero tessuto insediativo, sì da renderlo attraente in termini di nuove opportunità di lavoro e destinatario di nuove forme di investimento.

È necessario pensare all’agricoltura in termini di innovazione e cambiamento del reticolo urbano, con la ridefinizione del perimetro del costruito e l’offerta di servizi e condizioni di abitabilità più gradevoli sfruttando, proprio, l’effetto di contiguità e traendo vantaggio dall’addensamento abitativo.

Nella proposta di soluzioni che potrebbero essere considerate come esito di una ricerca atipica delle occasioni di impiego dei fattori della produzione, l’imprenditore agricolo non si limita, peraltro, a differenziare indirizzi ed obiettivi interni al tradizionale modello di produzione, ma reagisce ad una domanda sollecitata dall’esterno, in base a logiche negoziali, che cominciano anche ad essere sostenute entro un nuovo modello di welfare, ma che, sopra tutto, restano spontaneamente promosse da ansie e preoccupazioni dei differenziali sociali per recuperare condizioni di uguaglianza e rimuovere fattori di marginalità.

Per fare tutto questo è necessario valorizzare le aree agricole, diffondere la socialità e promuovere il benessere all’interno delle città, mantenendo le distanze dal cemento. Perché soltanto una città attraente, capace di fare dell’agricoltura il vero asse strategico della trasformazione urbana, è in grado di accogliere e trattenere occupazione e lavoro. Fare città significa promuovere la prossimità attraverso il coinvolgimento delle imprese locali nelle aree agricole di prossimità e creare solide sinergie tra gli operatori impegnati a tutelare le tradizioni agroalimentari locali e a preservare la struttura paesaggistica.

Ci vogliono argomenti per fare del paesaggio il luogo percepito del benessere, non rinunciando a politiche pubbliche sul territorio con risultati utili proprio a partire dalle aree a uso agricolo. La rivincita delle campagne [Barberis 2009] va posta al di là delle modificazioni in atto delle abitudini alimentari, in termini di sicurezza, per abbracciare una più generale sensibilità e ricerca di prossimità, in quanto si gioca tutta sul fabbisogno di qualità della vita delle comunità a fronte del soddisfacimento di interessi emergenti dal sociale a cui i pubblici poteri non sono più in grado di rispondere adeguatamente.

Le risorse ambientali e culturali della ruralità sono piegate, così, ad agire in una prospettiva di sviluppo di aspettative della comunità e di soddisfazione delle condizioni di benessere delle persone che consente una nuova lettura della stessa funzione dell’agricoltura con la fornitura di servizi ambientali, a fronte della domanda ecologica dei cittadini-consumatori alle prese con i problemi dell’inquinamento atmosferico, la congestione del traffico veicolare, il deterioramento del capitale emotivo.

In questi termini, l’agricoltura dimostra un’elevata capacità di metabolizzare la complessità dei processi di adattamento del mercato con il ricorso alle capacità professionali di imprenditori titolari non di sole funzioni specializzate di produzione, bensì capaci di essere mobili rispetto alle attese ed ai bisogni presenti nella società, approfittando della ricombinazione degli strumenti aziendali che tornano ad assegnare alla terra il ruolo di tessuto di interazioni personali e sociali.

Ci si trova, così, al cospetto, di interessi che rivendicano alle diverse e più moderne aspettative della convivenza sociale un cambiamento significativo del ruolo giocato dall’agricoltura in vista di soddisfare le necessità di approvvigionamento alimentare finora lasciate alla forza espansiva del mercato ed all’abbattimento delle sue mobili frontiere. Ed è proprio in questo quadro che, specialmente le Amministrazioni locali, per la conformazione istituzionale e il ruolo di dialogo collaudato attraverso esperienze dirette di adattamento ai limiti e di ricombinazione delle risorse connaturate al proprio ambiente, possono assumere un ruolo di poli di orientamento, coordinando e stimolando la serie delle attività preparatorie, ausiliarie e di incentivo nella riorganizzazione della filiera alimentare.

Infatti, a rifondare la coerenza di un progetto di connessione tra la città e la campagna non è più soltanto la domanda di servizi del tempo libero e di spazi di natura, ma di prodotti alimentari specialmente freschi, ottenuti a chilometro zero, eliminando i tanti passaggi parassitari dell’intermediazione che generano inquinamento atmosferico e sprechi.

Con l’esplodere dei problemi di approvvigionamento alimentare commisurati alla disponibilità, ai costi e, soprattutto, ai rischi del commercio a distanza, la qualità dell’alimentazione esprime un valore per la persona umana nel suo vivere sul territorio, che richiede, nella delimitazione della consistenza delle zone da pianificare e nella durevole salvaguardia della destinazione economica, precisi condizionamenti strutturali e un adeguato corredo di prescrizioni, limiti e vincoli alle trasformazioni urbanistiche.

In altri termini, la ricomposizione del territorio agricolo è di nuovo dipendente dal mercato, secondo un punto di vista alternativo al recupero di natura e di spazi di loisir apprezzati come condizione esistenziale di benessere psico-fisico delle persone, in quanto sono l’origine, la stagionalità e la tipicità culturale degli alimenti a far valere il riconoscimento del valore dello spazio nella sua funzionalità come antidoto ai timori di una incontrollata globalizzazione a tavola.

L’espansione degli agglomerati in conseguenza della fissazione di indici di edificabilità direttamente proporzionali alla dimensione demografica ed all’organizzazione dell’attività sul territorio ha richiesto, in specie, l’ammasso e la vendita di prodotti, per lo più sradicati dai luoghi di provenienza e privi di caratteristiche riconoscibili di identità, nelle superfici dei grandi magazzini della distribuzione.

Si può, del resto, sottolineare che, al pari dello sviluppo della rete di vendita capace di favorire il recupero e la rivitalizzazione dei centri abitati, incidendo sul livello di qualità della vita, la stessa organizzazione della filiera corta, rompendo la dicotomia città-campagna – a cui ha fatto riferimento lo schema di commercio praticato all’ingrosso o al minuto in base alla dimensione o alla specializzazione merceologica – finisca per assegnare una sostanziale stabilità alle aree agricole, le quali, recuperate attraverso un impegno meramente sociale, sono rivalutate come fonte di attività imprenditoriale.

 

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