Si è aperta a Expò2015 la Settimana della Dieta Mediterranea un importante momento di riflessione su un tema che presenta, anche alla luce delle cronache di queste settimane, numerosi elementi d’interesse per il nostro Paese.
Il caso della Dieta Mediterranea (nel seguito DM) è piuttosto curioso: si tratta, infatti, di un’“invenzione” operata da alcuni nutrizionisti statunitensi, solo grazie alla quale ci siamo accorti delle virtù di prodotti semplici (commodity) che da sempre occupano le nostre tavole. Ci siamo accorti, cioè, che esiste una “triade mediterranea” – data dall’olivo dalla vite e dal grano – che accomuna popoli e comunità, nazioni e culture; abbiamo scoperto che il nostro modo di mangiare costituisce, in realtà, un “modello nutrizionale”, molto sano e salubre; siamo stati introdotti al concetto del “siamo ciò che mangiamo” e che grazie ai nostri cibi per decenni siamo stati fanalino di coda nelle poco invidiabili statistiche sulle malattie legate alla cattiva alimentazione.
Solo dal 2010, però, a valle del riconoscimento che l’Unesco ha conferito alla DM come Patrimonio Immateriale dell’Umanità, ci si è iniziati a interrogare anche sulla possibilità di far leva sulla Dieta Mediterranea per creare valore economico sostenibile nei paesi da essa interessati (e cioè Italia, Marocco, Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo).
La questione, in chiave economica, si presenta su due piani, distinti ma evidentemente connessi: quello dello sviluppo sostenibile dei luoghi interessati e quello del business. Vediamo di cosa si tratta.
Sul primo piano, il valore della DM risiede in tre aspetti: nelle sue pratiche agricole, generalmente a bassa emissione di gas serra; nella biodiversità, dovuta alla rotazione delle culture e alle diverse semine; nel rafforzamento dell’identità e della cultura personale e collettiva, che poggia su un preciso stile alimentare tutto mediterraneo (il mangiare assieme, il prendersi tempo per preparare i cibi e consumarli, eccetera). Sviluppare la DM, in tutte le sue sfaccettature è un’opportunità unica per creare nei paesi interessati un modello di sviluppo sostenibile dai poliedrici valori.
Sul secondo piano, quello del business, il valore della DM risiede nell’opportunità di vivacizzare i mercati alimentari, esplorandone anche di nuovi, a essi correlati.
Qui disponiamo già, per l’Italia, di alcune statistiche di base su cui ragionare: l’Istat stima che circa 70 centesimi per ogni euro speso dalle famiglie in alimentazione, vengano da prodotti rientranti nella DM e l’80% circa delle vendite nella distribuzione moderna interessa prodotti della DM. In sostanza, esiste una solida disponibilità delle famiglie e un grande interesse della distribuzione verso i prodotti della DM: sta alla capacità creativa delle imprese trasformare tutto ciò in offerte che sappiano attrarre l’interesse della domanda. Uno studio dell’Università Sapienza di Roma, infine, stima in circa 800 milioni di euro il valore potenziale legato alla costruzione di offerte turistiche esplicitamente legate alla DM. Ce n’è abbastanza, come si vede, perché le imprese accendano i riflettori su questo unico e non imitabile asset.
L’Italia sa essere leader, nel campo dell’alimentazione, in tanti modi differenti. Siamo primi per numero di prodotti a Indicazione Geografica certificata (Dop e similari) abbiamo brand alimentari leader globali (Ferrero, Barilla e Lavazza, per esempio), pochi come noi sanno abbinare nei cibi tanti prodotti diversi (la cucina italiana) e solo noi abbiamo fatto della nostra cucina di casa un business, esportandola tramite gli emigrati in tutto il mondo e trasformandola –con la ristorazione- in un business e nella testa di ponte primaria per l’export agroalimentare italiano.
La Dieta Mediterranea ci offre l’opportunità di creare e ed esercitare una nuova leadership nell’ambito della food culture mondiale.