Cerignola, la cooperativa “Pietra di scarto” è un laboratorio di trasformazione

Cerignola

Cerignola – Comune della Provincia di Foggia – è ormai sinonimo di assalti a portavalori in autostrada condotti con stile militare. Si parla di “scuola di Cerignola” per questo tipo di assalti: mezzi e strade in fiamme, armi da guerra, come se si fosse sul luogo di un conflitto in un angolo sperduto del mondo, eppure è Italia. Una brutalità, quella della mafia cerignolana, che è entrata fin dentro il lessico e la dizione, elaborando il concetto di “scuola”. Una normalizzazione della violenza e dell’assoggettamento di una terra. Eppure c’è un nuovo movimento, un manipolo di concreti sognatori che stanno facendo la differenza in un territorio martoriato da questa mafia, dal caporalato, dalle difficoltà economiche. Un gruppo di uomini e donne che hanno dato vita ad un bene confiscato dedicato a Francesco Marcone. Una vera e propria azione quotidiana di antimafia concreta che, attraverso i fragili e gli ultimi, cerca di riappropriarsi di un territorio ai confini del dibattito nazionale. Intervista al presidente della cooperativa Pietro Fragasso.

Mi piace cominciare questo dialogo sul perché della scelta del nome “Pietra di Scarto”. Da cosa nasce e che prospettiva vuole consegnare? 

La Cooperativa Sociale “Pietra di Scarto” nasce a Cerignola nel 1996, all’interno di un contesto fortemente cattolico, quello della Parrocchia di Sant’Antonio da Padova. Il nome, infatti, deriva da un Salmo della Bibbia, il 118 per la precisione, che recita: «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo». Sembrava un nome perfetto per una Cooperativa che aveva come obiettivo quello di promuovere l’inserimento lavorativo di persone in gravi difficoltà. Quando sono arrivato in Cooperativa, due anni dopo, era il 1998, avevo 19 anni e quel nome non mi piaceva per niente: mi sembrava troppo caratterizzato, troppo “appartenente”.

Oggi, ogni volta che me lo chiedono, dopo 23 anni di lavoro in Cooperativa, rispondo che non potevamo avere nome migliore. Personalmente ne apprezzo la matrice eretica, a tratti anarchica, che definisce un sovvertimento dello status quo, di una certa visione plastificata e perbenista della realtà, che separa nettamente i buoni e i cattivi. Noi, invece, siamo la rappresentazione di una narrazione differente: che parte dalle carceri, dal mondo delle dipendenze e da quello dello sfruttamento e afferma che è possibile essere testimoni di rivoluzioni incredibili, che hanno al centro le persone. Non i detenuti, i tossici o i migranti, ma le persone. Con le loro fatiche, le loro complessità, la loro umanità profonda, fatta di sofferenze e di gioie.

Diciamo sempre di esserci dati una missione, che abbiamo deciso di tradurre con le parole di un nostro punto riferimento fondamentale in questo percorso maieutico, e cioè Danilo Dolci, il quale affermava che è necessario sognare gli altri come ancora non sono. Se dovessi definire il nostro lavoro, non potrei trovare parole migliori.

Quanto è complesso il lavoro di una cooperativa sociale su un bene confiscato a Cerignola? Creare e sviluppare una economia sociale in una terra veramente complessa e che sa essere estremamente violenta?

È bene chiarirlo subito: noi abitiamo una terra di mafia. Due anni fa, per la prima volta, il Comune di Cerignola ha vissuto il dramma dello scioglimento del Consiglio Comunale per infiltrazioni mafiose, determinando un commissariamento che ad oggi dura ancora. Ma è bene evidenziare come il fenomeno mafioso non nasca oggi. L’arrivo di Cutolo a Foggia, nel 1979, rappresenta la pietra miliare dell’evoluzione criminale della nostra Provincia, generando organizzazioni come la “Società Foggiana” e la “Malavita Cerignolana”, cresciute a fari spenti per più di vent’anni, lontane dall’attenzione dei media e soprattutto dello Stato. Tra gli l’inizi degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta la mafia della mia città ha compiuto un’operazione di straordinaria potenza, usando spesso la violenza più efferata, che tradurrei in una forma di egemonia culturale, capace di normalizzare un fenomeno, facendolo entrare nelle dinamiche ordinarie della comunità. Quanto poi accaduto nel recentissimo passato ha mostrato l’ennesimo salto di qualità, portando i clan a governare direttamente la cosa pubblica, a tratti anche sostenuti da una certa opinione pubblica votata al solito “almeno qualcosa si è fatto”.

Questa lunga premessa per raccontare come il nostro progetto di riutilizzo si pone la sfida di agire e dialogare con il territorio, provando a sviluppare azioni che possano incidere direttamente su ciò che ci circonda, evitando di rinchiudersi in “cattedrali della legalità” che poco hanno a che fare con la vita delle persone. Il rischio è sempre quello di parlarsi addosso e non ascoltare quello che la realtà circostante ci racconta.

Quando nel 2010 nasce il Laboratorio di Legalità “Francesco Marcone”, intitolato alla memoria del Direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, ucciso dalla “Società Foggiana” il 31 marzo del 1995, ci è subito stata chiara una cosa: agire secondo lo spirito più profondo della Legge Rognoni-La Torre e della successiva legge 109/96, restituendo alla collettività non solo un simbolo, ma attivando azioni che avessero alla base leve di cambiamento reali.

Per questo l’agricoltura sociale, la produzione di olive “Bella di Cerignola” e di pomodori, ma soprattutto la capacità di generare occupazione: il lavoro come elemento rivoluzionario del cambiamento, di rinascita, di affermazione della propria identità. Sempre in una modalità che abbia la “condivisione della sorte” come elemento solidaristico e di coesione per il raggiungimento dell’obiettivo che maggiormente ci sta a cuore: la giustizia sociale.

Puoi raccontarci il rapporto con la comunità locale, con le persone del territorio? Voi siete di Cerignola e dintorni, che clima c’era prima e che clima c’è intorno a voi?

È indubbio che viviamo in una terra complicata, che qualcuno ha definito bella e disperata, facendo una sintesi praticamente perfetta. Come detto abitiamo in una terra di mafia, è vero, ma il nostro DNA è di natura elevata: qui nasce Giuseppe Di Vittorio, da qui partono le lotte bracciantili contro il latifondo, qui nasce il sindacato e la battaglia per i diritti dei senza nome. Nasce Nicola Zingarelli, nasce Pasquale Bona. Molta di questa eredità nel tempo è andata dispersa, immolata spesso a dinamiche di corruzione e malaffare. Piano piano questa terra, questa città, si è abituata ad essere quello che altri volessero che fosse: addormentata, distratta, serva dei mafiosi. E questo ha portato i mafiosi a governare. Ecco perché nella lotta alle mafie, i beni confiscati diventano non utili, ma determinanti: raccontano alla comunità che lo Stato c’è, che è possibile affermare quanto abbiamo scritto nella parte alta della struttura che insiste sul bene, e cioè: “Qui la mafia ha perso!”. Tutto questo diventa necessario nel momento in cui la comunità si rende conto che l’antimafia non è una patente nelle mani di addetti ai lavori, ma coinvolge tutti, nessuno escluso. In questi dieci anni di gestione del bene confiscato, ci siamo resi conto di come è solo aprendosi al territorio, contaminando e contaminandosi, che si possono raggiungere obiettivi importanti e collettivi. In questo senso mi piace sempre ricordare una cosa: quando una persona che ha terminato il proprio percorso detentivo riesce a trovare un ruolo attivo all’interno della comunità, esso rappresenta un segno “più” sul bilancio dello Stato. Ci piace, in tal senso, pensare che la nostra è una funzione costituzionale.

In una terra che fa dell’agricoltura uno elemento trainante della sua economia, quanto è impervia la strada per riportarla ad essere umana, sostenibile, biologica, che ha visto, lo ricordo, la morte di Camara Fantamadi, per caldo e sfinimento?

Dobbiamo partire da due elementi: il primo è che noi abitiamo il terzo agro d’Italia per estensione e la quasi totalità delle terre è coltivata, spesso, in maniera intensiva e con un uso notevole di fitofarmaci e concimi chimici, che molto poco hanno a che fare con la sostenibilità ambientale; il secondo è che lo sfruttamento della manodopera è un fenomeno storico di questo territorio, anche se la differenza tra quello dei primi del Novecento e quello contemporaneo è abissale. I due elementi sono ovviamente collegati e richiamano inesorabilmente episodi come quello cui si faceva riferimento, accaduto pochi giorni fa.

Un elemento è determinante in termini di analisi: non è possibile dare risposte semplici a problemi complessi. La semplificazione non è ammessa, soprattutto quando si parla di filiere agroalimentari. Quello che si vede, lo schiavo, il caporale, i cassoni sono effetti – e non cause – che spesso appartengono ad una narrazione stereotipata, che non riguarda solo il pomodoro, l’estate o la Puglia. Troviamo fenomeni di “caporalato” anche in Trentino nella raccolta delle mele.

Tuttavia è necessario interrogarsi sulle cause che generano lo sfruttamento e che spesso hanno a che fare con la GDO (non tutta ovviamente), con una politica dei prezzi delle materie prime assolutamente selvaggia e lontana dal concetto di sostenibilità e con strumenti odiosi come le “aste al doppio ribasso”, molto utilizzate da alcune catene, in grado di portare un chilogrammo di pomodori a costare anche 5 centesimi.

È chiaro che, in un regime a cascata di questo tipo, chi sopporterà il peso più grande sarà il lavoratore che – ed anche qui è bene fare chiarezza – spesso ha anche un contratto regolare, ma che si vede riconoscere pochissime giornate in busta paga a fronte delle numerose lavorate.

Ciò che è accaduto a Camara è un tragico ritornello estivo che si ripete ormai da trent’anni: era il 1989 quando moriva Jerry Masslo a Villa Literno, ed era 1999 quando Hyso Telharay veniva massacrato dai caporali proprio qui a Cerignola. Anche la legge 199/16, approvata dopo la morte di una schiava italiana, Paola Clemente, rischia di vedersi fortemente depotenziata se politica e mercato continuano a viaggiare su binari paralleli. È tempo di cominciare a parlare di prezzo minimo garantito per le materie prime alimentari; è tempo di saldare una nuova alleanza tra produttori e consumatori, che si basi non solo su prezzi vantaggiosi e sconti, ma su esigenze politiche in un’ottica di azione collettiva che incida sul benessere della comunità.

La vostra azione antimafia su cosa si basa concretamente, come riesce ad incidere per davvero senza scadere nello slogan privo di contenuto?

Le risponderei con una risposta secca: sul lavoro. Per anni abbiamo affrontato il tema dei beni confiscati raccontando il loro valore simbolico sui territori, ed è stato giusto così. Ora è tempo di pensare a questi luoghi come imprese sociali capaci di aprire strade nuove nelle comunità in cui insistono, evitando di restare simulacri della legalità. Per anni abbiamo lavorato per dare le nostre soluzioni ad un problema atavico del territorio: la mancanza di lavoro. Per questo abbiamo orientato la nostra azione affinché questo accadesse, cercando alleanze che fossero funzionali. Si collocano in tale direzione la collaborazione costante con la Flai-CGIL territoriale, con l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di Foggia, con lo stesso Tribunale e con varie organizzazioni che rappresentano storiche compagne di strada come il Consorzio NCO, “Terra!Onlus” e Altromercato. Questa nuova stagione porterà con sé tante e decisive novità: come quella di dar vita, grazie al sostegno di Fondazione con il Sud, ad una filiera autodeterminata del pomodoro. Infatti, grazie al progetto “Ciascuno cresce solo se sognato: per una filiera equo e solidale del pomodoro”, stiamo facendo in modo di realizzare la nostra visione di riutilizzo sociale: abbiamo appena ristrutturato il fabbricato che insiste sul Laboratorio di Legalità “Francesco Marcone” rendendolo un laboratorio di trasformazione del pomodoro. Questo sarà il catalizzatore che porterà a sé una serie di azioni: la creazione di una rete di produttori dai quali sarà acquistata la materia prima a prezzo equo; la creazione di una rete di lavoratori provenienti da situazioni di fragilità cui sarà garantito un contratto regolare, che ruoterà sui vari lavoratori coinvolti. A sancire il rispetto degli standard etici ci saranno i ragazzi della rete “Humus”, start-up piemontese specializzata nella redazione di contratti di rete etici. A questo occorre aggiungere che l’impianto di trasformazione sarà gestito da tre figure femminili, anch’esse provenienti da situazioni di difficoltà, che saranno formate nella gestione della produzione di passata e di prodotti al naturale sempre a base di pomodoro.

È chiaro che un progetto tanto ambizioso ha bisogno di studio e applicazione, oltre che enormi sacrifici; ma crediamo sia la strada giusta per abbandonare una certa retorica dell’antimafia e proiettarci in una fase nuova, senza mai perdere i nostri punti di riferimento e le nostre idealità.

Costruire dal nulla un bene confiscato come realtà viva ha necessariamente dei costi economici. Se altri volessero seguire questo esempio, cosa devono fare, come devono muoversi? Perché spesso c’è la voglia di fare, ma non ci sono fondi necessari.

Quando siamo arrivati era maggio del 2010. Quello che avevamo davanti era una sfida che sembrava impari: tre ettari di terreno completamente abbandonati da 15 anni e un blocco di cemento armato a vista di circa 200 metri quadri su due piani, senza finestre e senza alcuna reale funzionalità. La prima azione che abbiamo compiuto è stata quella di cominciare a potare gli ulivi. Vito, l’unico socio con una formazione agricola, con la sua scala e le sue forbici, ha cominciato a rimettere in sesto il primo di circa 600 ulivi. È stato in quel momento che abbiamo cominciato a scrivere una storia nuova per quel posto. Da Rosario Giordano, affiliato del clan Piarulli-Ferraro, condannato per associazione di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti, si passava ad una proprietà collettiva, ad una progettualità collettiva. Non avevamo un solo euro da investire, non avevamo fondi pubblici o privati su cui contare. Eppure, se dovessi dirle cosa è stato veramente decisivo per la nostra storia, le direi la forza del gruppo, il crederci profondamente e con convinzione, anche quando sembrava impossibile. Mi trovo spesso a raccontare, ora che siamo prossimi all’avvio di questa nuova fase della nostra attività, che per circa dieci anni a tutti coloro che venivano a trovarci (e sono stati tantissimi) alla domanda “ma cosa farete qui?”, io ho sempre risposto alla stessa maniera: un laboratorio di trasformazione. Ecco, ora non ho più bisogno di rispondere a quella domanda, che nel frattempo si è trasformata in “quando partite?”. Credo che, al di là dei soldi – che oggi sono molto più recuperabili rispetto a dieci anni fa –, la differenza la faccia la visione, la motivazione e, mi permetterà, l’utopia come sprone decisivo per sognare un territorio capace di affrancarsi dall’egemonia mafiosa.

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