Simona Clemenza, torinese, cittadina del mondo, è una donna che ha raggiunto la parità con i fatti. Dopo le esperienze manageriali nelle più grandi case di moda al mondo (Karl Lagerfeld, Krizia, Ferrè) è diventata Amministratore delegato di Aspesi uno dei primi marchi del fashion italiano. Nel 2018, è stata inclusa da Forbes tra le 100 donne italiane che si sono distinte per impegno e risultati ottenuti. «Per noi donne non è facile vivere la parità ed essere valutate sul lavoro come i colleghi uomini. All’estero per me è stato più facile, in Italia siamo ancora indietro». Per il settore del Made in Italy, Simona Clemenza vede una grande ripresa nel post pandemia e non demonizza lo smart working, se è utile per conciliare i tempi tra famiglia e lavoro.
Dottoressa Clemenza, si parla tanto di donne in questo periodo per gli atti di terribile violenza perpetrati dagli uomini ma anche, e soprattutto, per la disparità di opportunità che certe donne hanno nel mondo del lavoro e, ultimamente, anche nella politica. Ci può aiutare con la sua esperienza ad inquadrare questo àmbito?
Certo. Io ho avuto la possibilità di sviluppare una carriera importante all’estero, quindi sicuramente ho vissuto in un contesto dove la disparità di genere probabilmente è minore; c’era un sistema meritocratico diciamo più bilanciato. Per quello che è stata la mia esperienza nel campo della moda italiana, è abbastanza sbilanciato quello che ho visto se parliamo di uomini e donne, soprattutto per il CEO level. Ci sono molte donne nel mondo della moda, fino ad un certo livello, ma pochissime riescono ad emergere nella classe dirigenziale o addirittura nei CEO level. Credo che l’Italia debba ancora fare dei grandi passi avanti e ci sia un gap importante tra quella che è l’esperienza che io ho vissuto all’estero e quella in Italia. Non credo che senza la mia esperienza all’estero sarei riuscita a diventare un CEO level qui in Italia. La carriera che ho sviluppato all’estero come donna valorizzata per le proprie capacità, non sarebbe stata altrettanto facile qua in Italia. Questo è il sentimento che ho; e che ho potuto vedere anche osservando le ex-colleghe: sicuramente l’impegno della persona è essenziale ed è fondamentale, così come i nostri risultati, ma l’opportunità che io ho avuto all’estero, credo mi sarebbe mancata in Italia.
Che esperienza è stata quella di passare dalle grandi maison del fashion ad una piccola realtà anche se molto smart ed efficiente in Italia?
Le differenze sostanziali sono nell’organizzazione, nella mobilità che hanno le risorse. I grandi gruppi hanno una mobilità abbastanza rapida, prospettive di carriera anche non indifferenti a discapito, però, di una visione a valore olistico: si è un “di cui”, si è una “parte” di un ingranaggio. Nella mia carriera ho avuto esperienze diverse, con ruoli diversi, però reputo che un’azienda piccola come la nostra, ma che comunque ha dinamiche abbastanza internazionali e visioni che hanno un valore olistico, possono portare le risorse ad occuparsi di aspetti a valore allargato, di essere parte di un progetto, e sentirsi parte integrante, esattamente come un sistema meritocratico, in fondo anche più rapido e virtuoso. Sicuramente, quella che io sto sperimentando, è una metodologia da grande corporate in un’azienda più piccola, quindi added value di quello che può essere un processo, di quello che può essere una struttura che potrebbe mancare, viceversa, nell’azienda più piccola, però credo che ci siano delle ottime opportunità anche nelle aziende piccole, soprattutto a livello umano e per le risorse e per le capacità messe in campo. In questo senso, si può dimostrare il valore di una piccola realtà, anche occupandosi di varie attività essendone parte integrante. Non solo, ma si ha anche la sensazione di essere informati di tutte quelle che sono le attività programmate e, quindi, anche i piani futuri dell’azienda.
La crisi del Made in Italy – che è il nostro marchio principale – quali vie di uscita sta intravedendo nel suo settore?
Sicuramente l’omni-canalità ed e-commerce sono le chiavi di lettura del futuro; lo erano già, ma oggi sono stati oggetto di un’accelerazione veramente importante. Per noi ci sarà anche l’ingresso in nuovi mercati, come quello cinese, quelli asiatici, quindi un’accelerazione importantissima sulla omni-canalità e soprattutto sui mercati asiatici dove c’è un’espansione economica che sicuramente sarà un traino per i prossimi anni. Quindi sicuramente l’espansione nostra passerà attraverso questi canali.
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È ancora importante avere un marchio nel vostro mondo, o i grandi gruppi lo annullano e appare soltanto il marchio di fabbrica del gruppo?
Secondo me è importante avere un marchio, ma più importante è che questo marchio abbia dei valori e che questi valori siano reali e concreti. Quindi, se il marchio oggi rappresenta un heritage, un criterio qualitativo, conosciuto per certi criteri, allora è un added value fondamentale. Tuttavia, credo che ci debba essere una relazione chiara e sincera con il consumatore, proprio perché il consumatore è molto attento, si informa e conosce, e la relazione tra marchio, identità e realtà di tutto quello che avviene nel contesto aziendale deve avere molta trasparente, deve avere una sua storia: esattamente quello che il marchio ha trasmesso nella sua storia e quello che rappresenta. Aspesi, per esempio, cura molto il proprio marchio, la tradizione dei tessuti, la tradizione di questo Made in Italy che per noi è un grande vanto e vogliamo portarlo avanti con molta fierezza. Questo sicuramente è importante; per quanto riguarda i piccoli marchi, ancora di più, perché il marchio rappresenta proprio l’equity stessa del brand.
Tra il lavoro e la famiglia, qual è la sua esperienza personale e quella delle altre donne o degli altri uomini che lavorano nella vostra azienda?
Sicuramente per una donna il ruolo della famiglia e la gestione della carriera hanno un impatto notevole. Siamo esposte ad un doppio lavoro e ad una carica di situazioni non indifferenti. Credo che anche l’impatto dello smart working e della gestione molto più modernizzata di quella che è la nostra agenda e di quelle che sono le nostre attività, possa conciliare al meglio le esigenze familiari con le esigenze lavorative, perché entra in causa quasi un’autogestione. Si gestiscono gli orari e i momenti da dedicare ai figli e alle altre situazioni. È pur vero che questo comporta un allungamento della agenda e delle ore di lavoro, da imputare, soprattutto, alla digitalizzazione. Si è veramente sempre connessi, si è veramente sempre molto presi dal lavoro, anche se c’è sicuramente una maggiore presenza presso i figli, all’interno della famiglia. Con lo smart working penso di avere dei vantaggi rispetto all’assenza totale nei confronti di mia figlia (penso, per esempio, essere presenti durante alcune attività scolastiche: fa sempre piacere vedere un genitore partecipare; in tal senso, una flessibilità maggiore di lavoro aiuta sempre.