Coronavirus, quarantena, pandemia, immunità di gregge: la guida delle parole

La diffusione planetaria del Coronavirus, rapidissima e violenta, non ci ha dato il tempo di difenderci dai suoi effetti, spesso letali, capaci anche di trasformare nel giro di pochi giorni le nostre abitudini, il sistema sociale ed economico, la nostra vita. E, come accade per tutti i fenomeni della nostra epoca, che coinvolgono la globalità dei paesi in un battibaleno e che vengono rimbalzati dalla onnipotenza della Rete e dall’onnipresenza dei social media, di loro si inizia a discutere non solo in assenza di specifiche competenze – per le quali occorrono anni di studio e di approfondimento – ma con un uso a dir poco disinvolto dei termini che quel fenomeno trattano e definiscono.
Nel caso del virus Corona la questione è ancora più grave perché la paura e le tensioni che la sua diffusione crea, sono dovute molto spesso all’allarmismo e alla superficialità con le quali vengono impiegati i termini che lo spiegano e che lo descrivono in tutte le sue possibili implicazioni.
Quarantena, Covid-19, contagio, epidemia, pandemia, virus, tampone, infettivologo, virologo, vaccino, immunità di gregge, test, bollettino medico, sono i termini che ci vengono propinati ad ogni ora e dei quali ognuno di noi si impossessa nei dialoghi con amici, parenti e conoscenti. Dialoghi che, a causa dell’obbligo di stare a casa, avvengono per lo più via telefono o attraverso le piattaforme digitali e il sistema dei social media.
A questo tipo di disinformazione “fatta in casa”, è proprio il caso di dire, frutto di pigrizia ed ignoranza, se ne accompagna una molto più pervasiva e non meno nociva: è quella orientata da quei gruppi che soffiano sulle informazioni false, sulle cosiddette fake news, per strumentalizzazioni politiche o convenienze commerciali e finanziarie, e che hanno interesse ad una evoluzione del fenomeno e ad una sua trattazione piuttosto che ad una che si attenga esclusivamente ai criteri medico-scientifici, gli unici che dovrebbero avere non solo la priorità ma anche esclusivo diritto di cittadinanza, in casi come questo nel quale in gioco vi è il bene supremo rappresentato dalla salute dei cittadini.
Cerchiamo allora di spiegare nel modo più semplice concetti che richiedono un minimo di applicazione e di analisi. Ebbene, i Coronavirus sono una vasta famiglia di virus, noti perché causano malattie che vanno dal comune raffreddore o influenza a forme più gravi come la sindrome respiratoria mediorientale (Mers) e la sindrome respiratoria acuta grave (Sars). I Coronavirus sono stati identificati per la prima volta negli anni Sessanta e sono noti perché capaci di infettare non solo l’uomo ma anche alcuni animali. Le cellule bersaglio primarie sono quelle epiteliali del tratto respiratorio e gastrointestinale. Il tipo di Coronavirus di cui parliamo è un nuovo ceppo, mai identificato prima di ora nell’uomo e che è stato segnalato per la prima volta in Cina, a Wuhan, tra il novembre e il dicembre del 2019. Il virus che ha causato l’attuale epidemia di Coronavirus è stato denominato Sindrome respiratoria acuta grave 2 – Sars CoV -2, ed è “fratello” di quello che ha provocato la Sars – CoVs, per questo il numero 2. Covid-19 è, invece, la malattia provocata dal nuovo Coronavirus dove CO sta per Corona, VI per virus, D per disease, ossia malattia e 19 ad indicare l’anno in cui si è manifestata.
La fonte dell’infezione è ancora allo studio della comunità scientifica. Quali sono i suoi sintomi? Febbre, stanchezza, tosse secca. Alcuni pazienti possono presentare dolori muscolari, congestione nasale, mal di gola, diarrea. Si tratta di sintomi iniziali, lievi che, nei casi di una infezione possono aggravarsi e produrre polmonite, sindrome respiratoria acuta, insufficienza renale e persino la morte. Della pericolosità di questo virus si è molto detto. In base ai dati disponibili, circa una persona su cinque con Covid-19 si ammala gravemente, presentando difficoltà respiratorie tali da richiedere il ricovero in ospedale, nelle unità di terapia intensiva.
Le persone maggiormente a rischio sono quelle anziane e quelle che soffrono di precise patologie quali ipertensione, problemi cardiaci, diabete e i pazienti immunodepressi. Il periodo di incubazione, ossia il lasso di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici, è stimato fra i due e i quattordici giorni.
Ma facciamo un passo indietro. Due termini sono stati e sono ancora oggi molto usati per significare la vastità di questo virus: epidemia e pandemia. E allora, “epidemia” vuol dire, sostanzialmente, diffusione rapida, in una zona più o meno vasta, di una malattia contagiosa. “Pandemia” è la sua tendenza a diffondersi in territori vastissimi, coinvolgendo diversi continenti. Risulta chiaro a tutti come l’uso giornalistico di un termine come epidemia o quello di pandemia possano avere effetti e ripercussioni ben diverse. Ebbene, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) soltanto l’11 marzo ha dichiarato che, nel caso del Coronavirus, era lecito parlare di pandemia e a questa conclusione è giunta solo dopo aver considerato il numero mondiale dei contagi, dei relativi decessi, delle zone coinvolte e dei focolai.
Ecco un altro termine specifico, “focolaio”. Nel linguaggio medico è la sede di un processo patologico e, nel nostro caso, è da intendersi il centro di propagazione di una infezione. Ma proseguiamo. “Contagio” figura sicuramente tra le parole che vengono più usate, ma cosa significa e come si trasmette? Significa letteralmente “toccare” e riguarda le conseguenze del contatto ossia la trasmissione della malattia infettiva dalla persona malata ad una sana, sia direttamente sia mediante mezzi contaminati. Nei primissimi giorni ma anche oggi, per effetto della paura soprattutto ma anche per ignoranza, sulle modalità di contagio del Covid-19 si è detto e si è sentito di tutto. La verità scientifica conferma che si tratta di un virus respiratorio che si diffonde in modo principale attraverso il contatto diretto con una persona malata. La via primaria di trasmissione del virus è quella delle goccioline del respiro delle persone infette, tramite saliva, attraverso lo starnuto o la tosse, o anche toccando con le mani contaminate perché non ancora ben lavate, bocca, naso o occhi. Non risponde al vero, quindi, che le malattie respiratorie, Coronavirus compreso, si trasmettano con gli alimenti.
Ma qual è la distanza di sicurezza che ci pone al riparo da una persona contagiata? Un metro è la distanza che ci preserva da contagio, anche se va citata una ricerca cinese pubblicata sulla rivista Practical Preventive Medicine secondo la quale il Coronavirus potrebbe essere in grado di sopravvivere nell’aria per almeno mezz’ora e su alcune superfici fino a cinque giorni, considerando come raggio d’azione una estensione pari a quattro metri e mezzo. “Quarantena” e “tampone” solo altre due parole tra le più usate dai telegiornali e dalle cronache giornalistiche. La prima è una contromisura necessaria per arginare l’epidemia, e con essa si intende un periodo di isolamento al quale vengono sottoposte le persone ritenute portatrici di agenti infettivi. La sua durata, come dice la parola stessa, era di quaranta giorni – fu la Serenissima Repubblica di Venezia a vararla per difendere la città dalla peste nel 1347. L’obbligo della quarantena, nel caso del Coronavirus nel nostro Paese, è previsto per quei cittadini trovati positivi al test o per quei soggetti a rischio in quanto entrati in contatto con una persona contagiata. In questi casi, la durata stabilita è di quattordici giorni.
Con la parola “tampone”, nel caso del Covid-19, si intende un esame utile a diagnosticare la positività o la negatività dal virus. È una forma abbreviata del “tampone diagnostico”, e funziona tramite ricerca, nei campioni prelevati dalla gola di un possibile paziente, del codice genetico del virus. L’esame prende il nome di RT-PCR ed è generalmente molto attendibile. Per alcuni studiosi – in particolare per quelli della Società italiana di malattie infettive (Simit) e della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg) – i tamponi, utili ad individuare il virus prima che si diffonda ulteriormente, dovrebbero essere estesi a tutti i pazienti sintomatici con affezione delle vie respiratorie e non solo a quelli delle zone più a rischio.
Un altro dubbio che è lecito porsi in questi giorni sulle professionalità chiamate in causa dal virus è quello relativo alla figura dell’infettivologo, del virologo e dell’epidemiologo. Sono stati spesso tirati in ballo dai fautori delle varie tesi sul corretto approccio da seguire sul virus e sulla sua gravità, e le loro dispute accademiche hanno tenuto banco sui quotidiani e nei talk show. Proviamo a distinguere? L’infettivologo è il medico specializzato nelle malattie infettive provocate da agenti patogeni quali i batteri e i virus. Prescrive i test per diagnosticarle e i farmaci per trattarle, seleziona i principi attivi e fornisce indicazioni terapeutiche e si occupa delle procedure di prevenzione come i vaccini utili a contrastare le infezioni. Il virologo è il microbiologo che studia gli aspetti chimici e morfologici dei virus. L’epidemiologo studia la distribuzione e la frequenza delle malattie nella popolazione. Si avvale dei metodi forniti dalla statistica e di quelli della medicina preventiva e clinica, oltre ai contributi della demografia e della sociologia per individuare le modalità di insorgenza, di diffusione e frequenza delle malattie in rapporto alle condizioni dell’organismo, dell’ambiente e della popolazione.
Di vaccino, di un farmaco o della terapia utile a sconfiggere il Coronavirus si parla ogni giorno, con approssimazione o con pressappochismo, per alimentare speranze o per incoraggiare l’attesa e per attribuirle un significato o uno scopo. È stato questo il vero campo di battaglia delle notizie false, perché la scienza ci dice che è ancora troppo presto per parlare di un vaccino o di farmaci utili a proteggersi o a curarsi. Il Coronavirus è infatti una malattia nuova e quindi sconosciuta. Sono allo studio delle terapie di supporto, in attesa di quelle specifiche. Si rincorrono i rumors su brevetti e vaccini che potenze mondiali sarebbero disposte a finanziare o ad acquistare da fantomatici laboratori. La stessa Agenzia del farmaco italiana (Aifa) ha precisato che «lo sviluppo di un vaccino è un processo piuttosto lungo ed elaborato». La sperimentazione clinica, infatti, deve valutare la sicurezza delle differenti dosi del vaccino e la sua potenziale capacità di offrire una risposta immunitaria.
Discorso leggermente diverso e più ottimistico può farsi per i farmaci. In questo caso, può essere utile la cosiddetta tecnica del “riposizionamento” in base alla quale si cerca di utilizzare prodotti già approvati per curare malattie diverse da quelle per cui erano stati creati. Nel caso del Coronavirus sono allo studio farmaci antivirali o quelli per la cura dell’artrite reumatoide.
Un discorso di verità merita il concetto di “immunità di gregge” – herd immunity – che tante polemiche ha creato, di tipo politico e scientifico. Il riferimento è alle parole pronunciate dal premier britannico Boris Johnson sulla linea che il Regno Unito avrebbe adottato sul Coronavirus, salvo poi indietreggiare. Johnson, infatti, in un primo tempo aveva esortato gli inglesi a prepararsi alla eventualità di perdere molti cari a fronte della cosiddetta “immunità di gregge” per la quale, contrarre in massa il virus significherebbe al contempo svilupparne in modo indiretto il contrasto. La catena dell’infezione, praticamente, verrebbe interrotta rispetto ad una comunità immune o meno suscettibile alla malattia. Un modo, più che altro, per preservare il sistema sociale ed economico, evitando blocchi, chiusure e la sostanziale paralisi della produzione e delle attività commerciali. Una sorta di terapia d’urto, con la conseguenza darwiniana del sacrificio dei più deboli, che non trova in questo caso alcun riscontro scientifico e che, sicuramente, produrrebbe migliaia di decessi. Da questo tema è nato il dibattito sulla prevalenza della ragion di Stato nei confronti del diritto inalienabile della salute dei cittadini, con tutto ciò che ne deriva, con le imprevedibili ripercussioni economiche che scaturiranno da un protrarsi della diffusione del virus in ogni angolo del pianeta.

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