Come ci ha ricordato la ricorrenza del 25 novembre, la violenza sulle donne rimane una delle questioni cruciali del tempo che viviamo. Ogni giorno, secondo stime dell’Oms, 137 donne sono vittime della follia omicida esercitata da uomini sconsiderati, animati dalla sete di possesso. Chiara Tintori, docente di finanza ed ecologia integrale dell’Università Cattolica di Milano prende di petto questa gravissima realtà in una raccolta di testimonianze (Adesso tocca a noi, ed. Terra Santa) di figure eccezionali che operano nei più diversi àmbiti della società.
Professoressa la violenza e la discriminazione non si arrestano. Come si può provare a voltare pagina?
Il fenomeno della violenza sulle donne sta purtroppo diventando persistente e strutturale nella nostra società. Anche per questo sarebbe opportuno che nel dibattito pubblico si usasse più spesso il plurale, “violenze”, perché ci troviamo di fronte a diversi tipi e gradi di violenze: psicologiche, linguistiche, economiche, fisiche. Oltre al fatto che, ancora oggi, purtroppo, alcune non sono percepite tali dalle stesse vittime. Qualunque tentativo di arginare le violenze sulle donne necessita di un mix di interventi: legislativi, sociali, educativi. Inoltre, è quanto mai urgente ripensare ruoli e gerarchie in un contesto sociale sempre più, e troppo, competitivo. In che modo le relazioni tra il potere e l’autorevolezza aiutano a integrare il femminile e il maschile? Come promuovere uno stile attento a valorizzare le differenze e le sfumature, lontano da stereotipi e banalizzazioni quanto mai dannosi? Dobbiamo porci queste domande, perché di tempo non ne abbiamo più.
Si può morire anche per un velo indossato male. Il nostro pensiero è rivolto alle donne iraniane. Non pensa che sia a dir poco inadeguato il livello di progresso raggiunto da quella che si definisce società della conoscenza? Non pensa che esso sia molto lontano da quello auspicato?
Il dubbio da lei sollevato è legittimo. La situazione in Iran è certamente molto complessa, mi limito a evidenziare come ci siano ragazze e giovanissimi che continuano a manifestare per la libertà con un coraggio immenso. In Iran protestare vuol dire rischiare la vita. Oltre all’ammirazione, provo grande preoccupazione per la repressione messa in atto dal regime. Una situazione drammatica, anche perché nella Repubblica islamica dell’Iran le donne sono discriminate in molti svariati àmbiti della società civile.
L’ora delle donne, sembra uno slogan; ma società e Istituzioni sono pronte a fare un passo decisivo di civiltà?
Le sedici donne con cui mi sono confrontata mostrano che è possibile esercitare la responsabilità con uno stile di leadership diverso da quello mascolino dominante. Ho incontrato donne straordinarie nella loro ordinarietà, creative e coraggiose, che accettano quello che la vita e il loro percorso professionale – il più delle volte non lineare – offrono loro senza farsi travolgere dagli avvenimenti, nemmeno quando incontrano persone che palesemente le boicottano. Adesso tocca a noi non deve essere visto come un manifesto rivendicativo della parità tra uomo e donna. È l’ora delle donne, perché già oggi esistono in Italia donne che esercitano una leadership cooperativa, che stanno sperimentando ruoli “altri” per discostarsi dal modello muscolare del “capo”, inteso come il più forte e il più valoroso.
“Riservare alle donne àmbiti marginali è un fattore grave di rallentamento dello sviluppo del Paese”, ha ricordato il Capo dello Stato. A che cosa è dovuta tanta miopia?
Riconoscere alle donne ciò che meritano, sulla base di competenze e talenti, non è solo una questione di dignità, che riguarda il valore delle persone, ma anche la dimensione economica, etica e culturale del nostro Paese. L’arretratezza che viviamo è imputabile principalmente a una diffusa cultura patriarcale e individualistica, dura a morire. Esiste anche una crisi del modello di leadership maschile, che tende a espellere la diversità. È tempo di rimettere al centro relazioni di cura – e non solo di accudimento –, di presa in carico degli altri, cominciando dai più fragili e dalle periferie, geografiche ed esistenziali del Paese. Abbiamo bisogno di una “nuova grammatica sociale” proprio perché i passi da compiere verso il pieno riconoscimento della leadership femminile è, prima di tutto, culturale.
Una donna premier in Italia: quale innovazione per il mondo della politica può a suo giudizio rappresentare?
In campagna elettorale e nei lunghissimi anni all’opposizione, Giorgia Meloni ha costruito la sua immagine di leader assertiva e decisa, ma allo stesso tempo rassicurante. Ora che è passata dalla protesta urlata alla responsabilità istituzionale, quale sarà il suo stile di leadership? L’auspicio è che essere la prima donna Presidente del Consiglio sia un traguardo che vada a beneficio anche delle altre donne e di quelle minoranze che in Italia faticano a veder riconosciuti i propri diritti. Se, invece, stiamo sostituendo il modello “un uomo solo al comando” con “una donna sola al comando”, avremo perso una grande occasione. Avrà Giorgia Meloni uno stile di governo inclusivo a vantaggio dei più deboli e in cui i diritti non si trasformano in privilegi solo per pochi? Oppure finiranno per prevalere i risoluti tratti identitari della sua cultura politica, dove le libertà individuali hanno la meglio sui legami sociali? Se il suo stile di leadership sarà più simile a quello della “madre della nazione” – come Angela Merkel – o della “regina guerriera” – alla Margaret Thatcher –, sarà il tempo a svelarlo.
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