L’esame di Stato una volta veniva chiamato esame di maturità, e ancora oggi molti continuano a dargli questo nome, perché di maturità e riti di passaggio legati alla crescita in fin dei conti si tratta. Dal 2000, e cioè da quando la riforma Berlinguer ridisegnò gli assetti della scuola italiana, ha invece preso il nome di esame di Stato. Diventando non più di “maturità”, ma di Stato, l’esame che segna la fine del percorso di studi nella scuola secondaria superiore è cambiato però non solo nel nome, ma anche nella sua struttura. I vari tentativi di renderlo più efficace, affidabile e “moderno” hanno messo ripetutamente alla prova i ministri dell’Istruzione di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni. Anche il ministro Bianchi, attuale titolare del dicastero di viale Trastevere, è spesso parso seriamente tentato dal proposito di imprimergli l’ennesima correzione. L’emergenza sanitaria ha rallentato il piano, spingendo il successore di Lucia Azzolina a escogitare soluzioni di fortuna, forse non così “moderne” e innovative, ma, certo, rispondenti alle pressanti esigenze di un momento storico senza precedenti.
Formula “vincente” non si cambia
Sono tante (troppe e tutte convergenti perché non abbiano una loro fondatezza) le voci che circolano sulla formula del prossimo esame di Stato. Se dovessero venire confermate (ma nessuna smentita nel frattempo è stata data), a giugno gli studenti italiani si cimenteranno con lo stesso esame che ha impegnato l’ultima generazione di diplomati: commissione di soli docenti interni, nessuna prova scritta, un elaborato da realizzare a casa e su un tema concordato con gli insegnanti della classe e un colloquio che comprenda l’accertamento della conoscenza dei programmi svolti e delle competenze acquisite, senza tralasciare l’esperienza Pcto (la vecchia alternanza scuola/lavoro) e l’educazione civica. Verrebbe ancora una volta premiata la storia scolastica individuale dello studente che, raggiungendo il massimo del credito scolastico, avrebbe già 60 dei 100 punti massimi ottenibili al termine dell’esame. Come dimostra proprio l’esperienza dell’ultimo esame, per tanti candidati si è trattato quasi di una formalità da adempiere solo per migliorare il punteggio di partenza. E il dato finale è che mai come per l’esame dello scorso giugno si è vista una percentuale di 100e di lodi così alta.
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Numeri da primi in classifica
I numeri dell’ultimo esame incassati e registrati dal Miur fotografano una scuola da prima in classifica. Solo lo 0,2% degli studenti che hanno sostenuto l’esame non si è diplomato. È pur vero però che un primo filtro è stata l’ammissione all’esame decisa dai Consigli di classe. Il dato nazionale degli ammessi rimane, tuttavia, molto alto, perché pari al 96,2%. È, inoltre, cresciuto di un ulteriore 0,5% (dal 2,6 del 2019-20 al 3,1% dell’ultimo esame) il numero dei diplomati che hanno preso il massimo con la lode. Poco più della metà dei diplomati (52,9%) ha, infine, ottenuto una valutazione superiore a 80. Numeri superlativi che indurrebbero a credere che le privazioni e le ristrettezze imposte dal Covid, di cui la scuola ha sofferto in modo particolare, non abbiano inciso negativamente sulle performance degli studenti italiani. Se i numeri continuano ad avere un valore (e chi mai potrà metterli in dubbio?), verrebbe addirittura da pensare paradossalmente il contrario, e cioè che, malgrado le difficoltà, la generazione dei neodiplomati si è fata valere, dando prova delle proprie qualità. Lungi dal dubitare della consistenza di queste, si rimane, comunque, perplessi di fronte ai numeri che, pur non mentendo, potrebbero non dire tutto. Potrebbero, ad esempio, non dare conto del peso delle rinunce, più o meno costose, più o meno inevitabili, a cui l’ultima generazione di diplomati viene costretta.
Giù le mani dallo scritto d’italiano
Tra le rinunce possibili è quasi certa la reiterata assenza dello scritto di italiano. Se così fosse, per l’Accademia della Crusca, tra le prime istituzioni culturali a lanciare l’allarme, si aprirebbero scenari poco invitanti. Si teme, e non infondatamente, che le deboli competenze in italiano e matematica degli studenti delle superiori avranno inevitabili ripercussioni sulla carriera universitaria. È quanto fa presente, fra i tanti, l’accademico della Crusca Paolo D’Achille, che mette in guardia sui rischi di un esame di Stato privato ancora una volta delle sue prove principali e ridotto a una sorta di maxi orale di 40-50 minuti. Ciò malgrado, lasciare inalterato l’impianto dell’ultimo esame pare non dispiacere a molti, e, tra questi, diversi dirigenti scolastici, non pochi insegnanti e, soprattutto, tanti studenti. Dai nuovi diplomandi è stata lanciata nella rete una petizione che ha raccolto in poco tempo 40mila firme. Con questa viene richiesta la riproposizione dell’ultima formula dell’esame anche per l’anno scolastico in corso.
Un esame a maglie larghe
Poche e solo indiziarie anticipazioni su quello che sarà il prossimo esame di Stato inducono a pensare che si opterà probabilmente per la formula utilizzata negli ultimi due anni scolastici. Quella che ha fatto dire a una donna esperta di scuola come Paola Mastrocola che l’esame sta diventando una farsa e che sarà un’impresa difficile per gli studenti che lo sosterranno rimanere imbrigliati nelle sue reti a maglie larghe e non superarlo. Intento della scrittrice torinese, che con il suo intervento ha attirato consensi e anche critiche, non è il ritorno difficilmente realizzabile a una scuola più selettiva, una scuola del passato che non di rado ha fatto del voto un impiego poco illuminato. I tempi, fortunatamente, non lo consentirebbero. Quello che lei e tanti altri professionisti della didattica (pedagogisti, insegnanti, formatori, uomini di scuola) chiedono è di dare agli studenti un esame capace di stimolarne meglio l’impegno. Un esame che dia una forma ancor più legittimante al loro progetto di crescita e di affermazione e che nessuno possa, un giorno, svalutare.