La fine di dicembre di ogni anno ci offre alcune ricorrenti ritualità: si ripassano i mesi, per individuare personaggi ed eventi che hanno segnato l’anno; ci s’interroga su quali saranno i temi del discorso di Capodanno del Presidente; ci si avventura fra previsioni, oroscopi e agende dell’anno nuovo; s’inizia a notare la campagna di comunicazione per il pagamento del canone RAI.
Quella che viene raffigurata dalle indagini demoscopiche come “la tassa più odiata dagli italiani” (quasi ne esistesse una più amata), è oggi, più del solito, sotto i riflettori. La ragione è semplice: nel (sacrosanto) furore riformista che anima questa legislatura sembrerebbe esserci posto anche per il ripensamento della formula di finanziamento della media company di Stato.
Come avviene ogni qualvolta la RAI entra nel mirino della politica (e dei media), le posizioni al riguardo sono tante, definitive e distinte, quasi quante le formazioni della nazionale prima dei mondiali di calcio.
Questo dibattito a noi sembra male orientato.
Il punto cruciale non verte, infatti, su quale debba essere la misura economica del canone, la sua distribuzione fra le tipologie di contribuente e le sue regole di esazione. Sono, questi, degli aspetti tecnici certo rilevantissimi, eppure marginali rispetto alla questione secondo noi capitale, che è invece: vale la pena, oggi, di mantenere una tassa per finanziare un’impresa di Stato nel settore media?
Vediamo, innanzitutto, su che cifre si ragiona. La Rai riceve dai contribuenti in regola circa 1700 milioni di euro l’anno. A questo importo dovrebbero poi aggiungersi, se l’evasione del canone fosse debellata, fra i 300 e i 600 milioni (cifra variabile secondo le stime). In totale, perciò, la cifra teorica delle entrate da canone ammonterebbe a circa due miliardi di euro l’anno. A questi vanno poi aggiunti dei ricavi ulteriori (da inserzioni pubblicitarie, attività commerciali e altro) per poco meno di un miliardo, a comporre il totale dei ricavi aziendali (dato 2013, AgCom).
Il punto, dunque, è se abbia senso che lo Stato investa ancora circa due miliardi di euro dei cittadini in una media company pubblica. Una possibile risposta sta nella valutazione degli effetti che quei denari producono nel e per il paese. In altri termini, la questione dipende dal ritorno sull’investimento (ROI) che il management RAI è in grado di generare a beneficio degli stakeholder.
Questa valutazione va condotta entro le giuste coordinate esogene, e cioè: (i) la contemporaneità globale; (ii) la media revolution in atto; (iii) il ridisegno della formula socioeconomica del Paese scandito dalle riforme, attuali e future.
In che modo, quindi, il management RAI potrà rispondere positivamente alla sfida di generare valore per oltre due miliardi di euro? La risposta è: differenziando il tipo di ritorno in ragione dello stakeholder di riferimento. Vediamone tre esempi, non esaustivi, per capirci.
Le famiglie (audience) devono ricevere contenuti culturali (ove comprendiamo l’intrattenimento) e informativi adeguati alla realtà del secolo globale, con tutta la varietà tipologica che le creative industry sono oggi in grado di offrire.
Le imprese nazionali dei settori contigui (creative industry) devono vedersi riconosciute dalla RAI le possibilità di espressione del loro potenziale, attraverso (co)finanziamenti, commesse sfidanti e potenzialità distributive.
Le imprese esportatrici (maker in Italy) devono poter contare sulla distribuzione di contenuti televisivi RAI all’estero, per esaltare il fascino dell’italian lifestyle e accrescere l’appeal dei loro brand.
Esistono molti altri, rilevanti, stakeholder da considerare, ma non ne abbiamo qui lo spazio.
Ciò che conta è l’idea: considerare tassello fondante della nuova mission RAI la generazione di un ritorno sull’investimento che lo Stato italiano è utile e opportuno mantenga nel tempo: “il ROI della RAI” non è, allora, solo un gioco di parole ma la sfida.