«Oggi la società della comunicazione, del web e dei Social media prevale sulla politica e condiziona la democrazia. Il populismo? Un modo infantile e pericoloso di leggere la realtà».
Ammettiamolo subito e senza alcuna remora: la politica oggi non gode ottima salute e la democrazia – ritenuta non a torto la migliore forma di governo tra quelle conosciute – non sta molto meglio. La sfiducia che i cittadini nutrono nella capacità della politica di risolvere i problemi del “vivere sociale” non accenna a diminuire e il dibattito degli studiosi sulla capacità di restituire forza, legittimazione ed efficacia alla politica è al centro della discussione. L’Eurispes ha posto alcune domande a Fabrizio Di Marzio, autore del saggio La politica e il contratto (edizione Donzelli), già recensito su queste pagine e che prende spunto dal contratto di governo siglato dal M5S e dalla Lega e che ha dato vita all’Esecutivo che oggi regge il Paese.
Che cosa sta succedendo nel mondo? Cresce la sfiducia nella capacità della politica e dell’istituto democratico di affrontare e risolvere i problemi reali delle persone. Da che cosa occorrerebbe ripartire?
Se ci chiediamo che cosa stia succedendo, possiamo rispondere che stiamo assistendo all’esplosione planetaria della comunicazione in cui una intollerabile mole di informazioni rimbalza nel pubblico dibattito e chiede a tutti quanti di esprimere la propria opinione secondo procedure estremamente semplificate, accolte nei Social media. Tutto ciò induce a leggere poco e velocemente, sviluppando una risposta non razionale ma emotiva da scaricare immediatamente in Internet. Date queste strutture della comunicazione sociale, mi sembra difficile che le ragioni, soprattutto le buone ragioni, possano conservare un peso effettivo nel pubblico dibattito, ormai scaduto ad un pubblico confronto di umori. Una prova? Basta osservare la vetrina di una libreria, specie di quelle inserite nel circuito della grande distribuzione, ed osservare argomenti, titoli e autori dei libri esposti: si constaterà la risposta del mercato editoriale all’attuale realtà dell’utenza. Per lo più libri confezionati per la così detta gente dei Social media. Evidentemente, le barriere culturali allo smodato prevalere degli istinti, dei pregiudizi, delle superstizioni e delle sciocchezze di ogni genere non hanno mai avuto un terreno così fertile. Non a caso per i tempi che viviamo si è diffusa l’etichetta, a sua volta semplificatrice, di tempo della post-verità.
Non crede che l’introduzione della categoria del contratto in politica sia di per sé una sconfitta per l’iniziativa della politica stessa o anche un segnale di sfiducia nei confronti della classe dirigente che deve vincolarsi a qualcosa di precostituito e predefinito?
Norberto Bobbio non la penserebbe così. Con l’idea del “contratto sociale” (e dunque del contratto) la modernità inaugura la sua teoria politica, attraverso il pensiero di Hobbes, Rousseau e altri. Per la modernità il contratto è un presupposto di civilizzazione politica, è una difesa contro il disordine della natura. Il problema, certamente sussistente, della rigidità del contratto come piattaforma imperativa di impegni assunti pone un problema di gestione di questo strumento, ma non ne revoca in discussione la legittimazione.
Che cosa porta con sé di buono il contratto in politica? Dalla sua istituzionalizzazione che cosa dobbiamo attenderci? Effetti positivi o negativi per la nostra democrazia?
Il contratto nella politica non è una novità, soprattutto per quello che riguarda l’intesa su obiettivi politici condivisi. Soprattutto in Germania, da vari decenni il contratto fonda coalizioni di governo. Non credo che la crisi dipenda dall’adozione del contratto politico. Si tratta solo di uno strumento per l’intesa.
Lei scrive che il contratto è divenuto il codice comunicativo più diffuso, superiore anche al denaro. In che modo si può interpretare la pervasività di questo strumento nella odierna società del web e della globalizzazione?
Occorre sempre avere presente che il contratto – strumento di efficienza, e che si rivela ottimo in politica, terreno di conflitti e di tensioni – non risponde dei contenuti che vengono inseriti dai contraenti. Si tratta, semplicemente, di un codice comunicativo. Così come il suo utilizzo non degrada i contenuti dell’intesa – anche politica –, allo stesso modo non ne assicura il valore e la condivisibilità. Il contratto è soltanto una tecnica per accordarsi, che nulla dice sui contenuti degli accordi conclusi.
Esiste il rischio che la relazione contrattuale possa invadere altri campi?
Diciamo subito che la relazione contrattuale non è la più alta forma di relazione tra le persone, non è la più nobile, perché è superata da altre forme tra cui la concordia, il comune sentire, l’empatia, le affinità elettive. Ciononostante, il contratto mantiene la sua forza e la sua efficacia in tutte quelle situazioni di conflitto tra le parti e di opposizione di interessi perché consente di cooperare nel conflitto e di costruire una piattaforma per il soddisfacimento reciproco degli interessi contrapposti. Ne consegue che tutto il mondo degli interessi è e sarà dominato dal contratto. Di nuovo, si tratta di un semplice strumento. Sta a noi stabilire se possa costituire oggetto di interessi piuttosto che di valori. In altre parole, quali cose possano essere negoziate e quali no. Per esempio, nell’estate scorsa, il Governo ha negoziato, con i partner europei, l’accoglienza dei migranti appena soccorsi in mare, ritenendo quelle persone interamente deducibili in un regolamento di interessi. Kant l’avrebbe pensata diversamente, giacché per lui l’uomo non è mai un mezzo (qualcosa che possa essere contrattato) ma un fine (un valore non negoziabile).
Qual è la sua opinione sul gradimento degli italiani nei confronti del contratto di governo? La formula del contratto è un elemento di chiarezza che può riscuotere apprezzamento?
Va chiarito che l’accordo tra il M5S e la Lega è un contratto di governo e non di coalizione perché mira a soddisfare interessi e reciproche priorità di programma e non a realizzare valori e visioni di precise organizzazioni della società. Per questa ragione si tratta di un esperimento del tutto nuovo nel panorama politico: il contratto regola effettivamente un’intesa basata su interessi contrapposti, che rispondono a elettorati molto diversi uno dall’altro. La forza comunicativa di questa operazione è nel messaggio sul compromesso che il contratto reca limpidamente. Agli affezionati della riduzione della pressione fiscale da un lato, e a chi spera in un sussidio di Stato dall’altro, le forze di governo dicono: «Sarebbero obiettivi contrastanti ma noi li abbiamo concordati nello scambio contrattuale dove una parte può realizzare il proprio interesse a condizione che lo stesso valga per l’altra parte». Per questa operazione, l’identificazione degli elettori in forze così diverse è preservata dal contratto: dallo strumento fatto apposta per combinare irriducibili diversità (si pensi ai desideri e agli interessi del venditore e a quelli del compratore: il primo vorrebbe liberarsi di qualcosa di cui il secondo vorrebbe appropriarsi. Attraverso il contratto di vendita gli interessi contrapposti si combinano secondo una formula efficiente.
In che modo il web e i Social media condizionano, oggi, il dibattito politico e la partecipazione ai temi della politica?
Annichilendola. Frequentare il web è alternativo al frequentare persone. Ne risente la relazione umana nel suo complesso: la sfera degli affetti, della sessualità, della politica sopra tutte.
Quale può essere oggi il ruolo dei partiti e dei movimenti politici? È auspicabile la formazione di comitati civici sulla base di specifici temi e iniziative?
L’idea di politica presuppone quella di società civile e di comunità. La politica è qualcosa da fare necessariamente insieme. Quella del movimento politico è una formula che indica un’aggregazione di persone per fini politici a scarso contenuto organizzativo; al contrario, i partiti politici si distinguono quali vere e proprie comunità intermedie – che si frappongono tra l’individuo e lo Stato – dotate di una stabile ed articolata organizzazione. Ne segue che la persistenza negli anni, di un movimento politico, di solito ne determina la trasformazione in partito, ossia in una stabile organizzazione che agisce politicamente. Quindi, ben venga qualsiasi forma di spontanea, elastica, fuggevole relazione politica tra persone. Nella parola “movimento” dovremmo sentire un vento che scorre e vivifica le istituzioni sociali della politica, ossia i partiti, costringendoli ad una costante revisione critica di uomini, mezzi e obiettivi che ne riduca la sclerotizzazione.
Esiste oggi un pericolo populista? Se sì, in che modo è possibile, a suo giudizio, contrastarne le spinte?
Il populismo, ossia la visione della realtà ad un grado molto elevato di semplificazione, è un dato di fatto nelle società della comunicazione, come ho spiegato precedentemente. Il populismo è pericoloso nella misura in cui, semplificando la realtà, la riduce ad una dimensione grottesca: un semplice modellino in sedicesimi di quello che invece è, in realtà, il mondo. Se osserviamo il modellino siamo indotti a pensare come bambini. Con tutta la freschezza e la dannata pericolosità che questo comporta per le cose del mondo.
Fabrizio Di Marzio è consigliere della Corte di Cassazione. Autore di numerosi lavori in materia di diritto civile e commerciale, sul tema del contratto ha pubblicato: I contratti d’impresa (Utet,2008) e Contratto illecito e disciplina del mercato (Jovene, 2011). Per i tipi della Donzelli ha curato il volume Agricoltura senza caporalato (2017).
La recensione del saggio La politica e il contratto (edizione Donzelli)