Nel Rapporto Eurispes del 2015, Gian Maria Fara scrive che sette italiani su dieci si dicono sfiduciati nei confronti delle istituzioni, parla di «una vera e propria frattura tra cittadini, politica e Istituzioni». E il Governo – perché di questo si tratta – sta cercando di cambiare le istituzioni. L’intervento riformatore sembra essere a tutto campo. Senza voler essere esaustivi, si va dal jobs act alla responsabilità civile dei magistrati, dalla scuola alla funzione pubblica, dalla riforma costituzionale del Senato, e quindi del parlamentarismo nel suo complesso, a quella della legge elettorale, che costituisce il meccanismo di reclutamento della classe politica, l’essenza base di una democrazia. I cambiamenti attesi potrebbero essere di una portata ampissima e mi pare che il dibattito rimanga sostanzialmente arginato tra sfere non sempre comunicanti di specialisti e addetti ai lavori mossi talvolta, questi ultimi, da obiettivi di competizione politica più che da afflati riformisti. Trovo lievemente inquietante che, in un periodo in cui si parla di antipolitica come necessità di spazi decisionali in cui il cittadino possa esprimersi direttamente, non si riscontri una discussione ampia, estesa, coinvolgente in cui il Paese intero dibatta, comprenda, si esprima sui cambiamenti cruciali che sono alla porta.
Il clima generale sembra inoltre richiedere e apprezzare il cambiamento a tutti i costi, per la faciloneria di quella visione politico-culturale che Fara definisce “apocalittico-nichilista”, determinata a fare piazza pulita dell’esistente che, per il solo fatto che esista, va comunque cambiato. La protesta si fa proposta. Qui una furia e uno scontento popolare si vestono da progetto politico. L’indignazione dovrebbe portare a uno sforzo propositivo e non farsi solo spettacolo che allontana ancor di più dalla partecipazione la cittadinanza attiva. Ma c’è anche quel vizio italico di apprezzare una leadership decisionista e di affidarsi periodicamente a colui che, nell’immobilismo del sistema, sembra sapere e volere comunque scegliere e decidere. Nel vuoto di una partecipazione politica incanalata una volta dai partiti, si impone sempre più la figura del tecnico, di colui che sa “come” fare e di cui il leader si serve. Ma il momento politico è ineludibile perché porta la responsabilità del “cosa” si vuol realizzare e la scelta del “cosa” non può che essere politica. È l’annoso tema della politica come rapporto tra voluntas e ratio. Non esiste soluzione tecnica che non sia implicitamente portatrice di scelte di fondo politiche, che sono risposte a bisogni reali coerenti con una visione della società. La politica non può ridursi a mera gestione. La democrazia per funzionare ha bisogno di partecipazione, di cittadinanza attiva. In democrazia si deve poter contare e non solo essere contati.
Ho molti dubbi di cui vorrei parlare. L’Eurispes.it è il luogo ideale per farlo. Il lavoro incessante e prezioso dell’Istituto che da decenni contribuisce a spiegare questo nostro Paese, il multiculturalismo e l’interdisciplinarietà che lo animano, il desiderio e la capacità di interloquire autorevolmente con le Istituzioni fanno del suo magazine uno spazio di confronto prezioso.
Un primo tema su cui riflettere riguarda proprio la selezione della classe politica, argomento che chiama in causa i partiti, il sistema elettorale, ma anche i corpi intermedi, la cosiddetta società civile. Il sistema politico italiano da tempo non consente di selezionare una classe politica all’altezza delle sfide con cui ci misuriamo. L’antipartitocrazia è divenuta antipartitismo, quasi che fosse possibile una democrazia senza partiti. Esistono partiti anche dove non c’è democrazia ma non è vero il contrario, non esiste alcun sistema politico democratico senza partiti. Sono gli attori fondamentali della dinamica democratica. Certamente dobbiamo ripensarli, forse disciplinare il loro funzionamento secondo regole democratiche con l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, ma non si può farne a meno. Anzi, uno dei temi più gravi sembra essere oggi proprio la mancanza di partiti veri.
Il partito incanala la partecipazione politica, è un importante attore del processo di socializzazione politica, forma i cittadini, la cultura politica, fa introiettare la legittimazione dei ruoli pubblici, il senso della cosa pubblica e la capacità del confronto democratico, della competizione per la conquista e la condivisione di spazi decisionali, in cui prendono forma le regole e le politiche che determinano le condizioni di vita di una società. Instillano negli individui la coscienza politica. E la politica, come diceva Lucio Magri, è ricerca dell’incontro, del consenso con altri invece dell’arroccamento sul proprio io nella convinzione di potercela fare da soli. O nella idea che ce la debba fare un «leader semplificatorio (…) che ha delegato la direzione del Paese a un apparato burocratico…» ( Fara). Convinzione che indebolisce il corpo sociale e lascia le persone più sole e indifese rispetto al potere. Se il partito non svolge più la funzione di formazione e selezione di classe politica e non incanala più la partecipazione, si determina un grave vuoto che bisogna colmare. La degenerazione dei partiti ha eroso gli spazi della partecipazione e ha reso i cittadini passivi e consapevoli di non potere incidere, quindi predisposti ad aspettarsi tutto da un leader anziché anche da se stessi.
La formazione e l’esperienza politica non godono di buona stampa, un curriculum politico, anche se vissuto con dignità e capacità personali, è malvisto. Vengono scelte più volentieri per i massimi incarichi istituzionali persone “nuove”, che non vantano alcuna esperienza istituzionale precedente o che vantano addirittura l’estraneità dalla politica come loro solo titolo di merito. A volte vengono privilegiati i cosiddetti tecnici che, provenendo da mondi di interessi professionali specifici, se posti a capo di un ministero, sono in flagrante conflitto di interessi. O persone che, avendo svolto bene il proprio lavoro, si presume che siano capaci di fare altrettanto bene il lavoro politico. O altri che addirittura non hanno mai fatto nulla. In tal modo, anziché innovare, si rinnega il valore delle capacità e dell’esperienza politica. La notorietà e l’efficacia mediatica fanno la parte del leone in una politica che diviene propaganda incessante, estranea alla vocazione di elaborazione teorica e di confronto e alla reale capacità di prendere decisioni che cambino effettivamente in meglio il nostro sistema politico. Nell’ultimo ventennio il nuovismo è stato cavalcato da leader di ogni sorta, da Bossi a Berlusconi, da Monti a Grillo senza che i nuovi ceti politici incarnassero alcuna vocazione reale ad occuparsi della cosa pubblica. La classe politica proviene dalla società civile, la rappresenta e la riflette. Non esiste una società sana che esprima una classe politica cialtrona, soprattutto in democrazia. Non si può pensare che la classe politica migliori se non migliora la società civile e i suoi corpi intermedi. Anche la scuola è una palestra di cittadinanza. Il malcostume non è politico ma sistemico, come testimoniato dai numerosi scandali che affliggono ogni àmbito anche non politico e che quotidianamente affollano le pagine dei giornali, ma la democrazia ha bisogno di una tensione morale che la animi, altrimenti viene penetrata dai peggiori interessi.