Sognare una “Repubblica d’Europa” che ricoscopra valori comuni, scavalchi le demagogie dei nazionalismi, costruisca una nuova realtà politica, economica e culturale: è l’idea proposta nel libro La Repubblica d’Europa (Add Editore). Ne parliamo con Davide Mattiello, coautore del testo, Presidente della Fondazione “Benvenuti in Italia”, già deputato per il partito democratico nella passata Legislatura e già membro della Commissione parlamentare Antimafia e della Commissione Giustizia.
La Repubblica d’Europa. Oltre gli Stati nazione è il frutto di un accurato lavoro di autrici e autori del collettivo di IS.AG.OR. Oltre a lei, tra i vari autori ci sono Marco Omizzolo, Leonardo Palmisano, Mariachiara Giorda, Sara Hejazi, Luca Mariani, Anna Mastromarino e Francesca Rispoli. Perchè la necessità di costituire un collettivo autoriale e perché IS.AG.OR.?
Troppo spesso le buone idee diventano il piedistallo del narcisismo di qualcuno ed esaltando l’ego, viene travolta anche l’idea: uno spreco che non possiamo più permetterci. Noi abbiamo voluto mettere davanti l’idea, la Repubblica d’Europa, e dietro, le identità degli autori. Le nostre biografie ci sono tutte, ma sullo sfondo: un modo simbolico per metterci al servizio dell’idea e non, al contrario, servircene. ISAGOR, l’acronimo con il quale firmiamo il libro, è un omaggio ad Antonio Gramsci: centro anni fa a Torino, Gramsci, con un manipolo di giovani, fondava Ordine Nuovo per resistere all’onda nera montante e nel tamburo della rivista sceglieva tre parole: “Istruitevi, Agitatevi, Organizzatevi”. Ecco, in tanti anni, mai ho trovato una sintesi migliore di come ci si debba approcciare al gravoso compito di costruire non soltanto resistenza, ma trasformazione.
Il libro è un “manifesto” che afferma la necessità di ripensare in maniera radicale la forma da dare all’Europa proponendo una Repubblica che, superando gli Stati nazionali, sia in grado di costituire una nuova realtà politica, economica, culturale e strategica. In epoca di sovranismo, di antieuropeismo che diventa azione e linguaggio di vari governi europei, il sogno di una “Repubblica europea” non le pare molto lontano?
Potrebbe apparire lontano perché in tanti si sono abituati all’orrore di un mondo in guerra permanente contro i poveri, l’orrore di una Europa disperata, contratta sul sogno cupo dell’edonismo di pochi salvati. Ma c’è una energia sotterranea pulsante: la forza di tutti coloro che sarebbero pronti a dare di nuovo battaglia se soltanto qualcuno proponesse un obiettivo chiaro e concreto. Invece, anche i leader politici più ispirati, si limitano a richiamare un quadro di valori alternativo a quello sbandierato dai nazionalisti: ma la battaglia, che deve presupporre i valori, si fa per realizzare un obiettivo concreto che quei valori possa tradurre; ecco l’Europa trasformata in una Repubblica, fondata sulla uguaglianza, per tutti i cittadini, di diritti e doveri, è un obiettivo concreto.
A proposito di sovranismo e nazionalismo, secondo lei, da dove nascono questi movimenti; perché stanno ottenendo così tanto successo elettorale e come rispondere alle domande di fondo che legittimano la loro ascesa?
Perché negli anni Novanta la classe dirigente occidentale, con una specifica e più grave responsabilità di quella parte di essa che sventolava la bandiera della socialdemocrazia, ha concesso troppo al mito della globalizzazione liberista dell’economia, impostosi senza alternative all’indomani dell’abbattimento del Muro di Berlino. Una classe dirigente che, con toni diversi, ha assecondato quel processo, immaginando che avrebbe prodotto un beneficio per tutti: non è stato così ed era prevedibile. Nei movimenti critici, per non dire antagonisti che frequentavo negli anni Novanta si sintetizzava la perversione dell’idea di libertà che stava alla base della globalizzazione con la frase “libera volpe in libero pollaio”. Oggi gestiamo le conseguenze: la globalizzazione ha prodotto una sorta di diffusa “agorafobia”, che genera il bisogno rabbioso di “grotta”, di nicchia sicura nella quale sentirsi protetti: i nazionalisti di oggi, che raccolgono questo bisogno, sono il frutto degli errori degli anni Novanta.
Quanto c’è del sogno di Spinelli nel libro?
C’è in toto perché ne è il fondamento: il bisogno di pace e di libertà per tutti, l’orrore per la guerra, per la segregazione, per la fame. Parlare di Stati Uniti d’Europa è stato per molti decenni il modo più avanzato per racchiudere il progetto di una Europa unita, libera, giusta; poi, questo modo si è consumato irrimediabilmente con il fallimento del progetto di Costituzione che si è infranto contro i referendum di Olanda e Francia del 2005. Poi la crisi esplosa nel 2008. Oggi, lo Stato nazione non è più il possibile veicolo virtuoso della integrazione europea, perché è stato riassorbito dalla retorica nazionalista: bisogna andare oltre, altrimenti il rischio è quello di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Ecco perché parlare di Repubblica d’Europa.
Nel libro si toccano temi di grande attualità, a partire dall’internazionale nera, il lavoro, l’informazione, la legalità, la libertà religiosa. L’Europa rischia, secondo lei, di tradire se stessa tradendo i valori di giustizia, libertà, uguaglianza che dalla rivoluzione francese l’hanno ispirata?
Il terribile caos libico è lì a dimostrarlo. I naufraghi in mare, il Mediterraneo trasformato in una fossa comune sono soltanto un riflesso delle violenze che si perpetrano in Libia da anni, perché l’Europa è un condominio litigioso in cui ci si fa concorrenza sleale per accaparrarsi risorse strategiche, sulla pelle delle persone (compreso Giulio Regeni!). La pace in Europa è nata mettendo in comune le risorse strategiche: l’acciaio ed il carbone, risorse che erano state alla base di tanti “macelli” tra francesi e tedeschi. Ecco, in che senso abbiamo smarrito l’orrore della guerra: allora si seppe fare questa scelta perché non c’era un solo dirigente politico in Europa, negli anni Cinquanta, che non avesse almeno un morto in casa. Oggi diamo per scontato un benessere relativo, che gronda sangue, ma pare che non ci faccia più effetto.
Lei è stato anche membro, nella passata Legislatura, della Commissione parlamentare Antimafia e relatore per importanti provvedimenti, a partire dal nuovo Codice Antimafia e dalla nuova norma contro il caporalato. Quali sono gli elementi innovativi essenziali di questi due provvedimenti, e ritiene che si stia continuando il lavoro avviato o invece si rischia di vanificarlo?
Abbiamo cercato di rendere più efficaci gli strumenti normativi soprattutto volendo colpire i sistemi criminali che, anche quando non sono vere e proprie organizzazioni mafiose, si ispirano sempre più al metodo mafioso nella capacità di imporsi attraverso la forza di intimidazione del vincolo associativo. Questo è purtroppo ben visibile nel drammatico fenomeno del caporalato in Italia, del quale si occupano con coraggio due dei coautori di ISAGOR: Marco Omizzolo e Leonardo Palmisano. Molte novità sono rimaste sospese in attesa dei decreti attuativi e soprattutto di prassi applicative coerenti; questa Legislatura ha soltanto un anno di vita ed è stato un anno travagliato, con pochi passi avanti e qualche pericoloso passo indietro, ma stiamo a vedere.