Nei giorni scorsi è emerso un ulteriore aspetto legato alla lotta contro il terrorismo. La connessione tra privacy e sicurezza. In realtà è molto tempo che si dibatte su tale argomento ma la richiesta avanzata da un giudice federale statunitense verso Apple ha messo in luce concretamente il problema.
Recentemente infatti il dipartimento di giustizia americano ha sollecitato la nota casa produttrice di telefoni Apple a rispettare il provvedimento mediante il quale l’FBI chiedeva di sbloccare l’iPhone di uno dei terroristi autori della strage di San Bernardino, verificatasi il 2 dicembre scorso, durante la quale sono state uccise 14 persone e ferite 22.
Nel concreto l’istanza è volta ad ottenere lo sblocco del telefono dell’attentatore al fine di verificare se all’interno vi siano elementi utili per le indagini, magari funzionali ad evitare ulteriori stragi o a individuare altri probabili attentatori. Si tratterebbe di sviluppare un programma in grado di decrittare il telefono e consentire l’accesso alle forze di sicurezza. Naturalmente l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, si è opposto fermamente a tale richiesta sostenendo che la privacy dei suoi clienti è prioritaria rispetto a tutto e che, soddisfacendo l’istanza dell’FBI, si creerebbe un precedente troppo pericoloso.
A questo punto emerge con facilità il sottile confine che intercorre tra privacy e sicurezza. Ad oggi i dispositivi cellulari che ognuno di noi possiede contengono gran parte delle informazioni da noi utilizzate durante la giornata. Informazioni personali, di lavoro, contatti, numeri di telefono, sms, email. Tutta la vita chiusa all’interno di pochi centimetri di tecnologia. Il concetto di privacy fa da sfondo all’intero utilizzo di questi dispositivi. Sacrosanta conquista quella della privacy.
Tuttavia, il contesto globalizzato nel quale siamo immersi vede coinvolte anche organizzazioni criminali e terroristiche che sfruttano tale sistema per i propri scopi illeciti. Tutti sappiamo quale sia stata l’entità del salto tecnologico effettuato da organizzazioni quali Isis o Al Qaeda. L’utilizzo del web e della tecnologia è divenuto parte integrante del loro disegno strategico.
Affidare ai governi strumenti tecnologici in grado di penetrare in determinati dispositivi e proseguire le indagini al fine di ricostruire contatti, connessioni, messaggi o links tra terroristi ritengo debba essere un atto di fede che aziende controllanti i mercati più ampi e remunerativi del mondo, nonché i privati debbano umilmente fare. Il tutto inquadrato nell’ambito di una cornice normativa ben definita e delineata.
È vero, in questo modo ci sarebbe la possibilità di un potenziale utilizzo sproporzionato di informazioni personali da parte di Stati e governi. La lotta al terrorismo diventa allora più una lotta interna alla nostra società, nella quale appare necessario scendere a compromessi con noi stessi. Maggiore sicurezza e minore privacy, o il contrario? La soluzione potrebbe essere ricercata nel ruolo più stringente della legge.
Con l’auspicio che l’azione dei governi impegnati nella lotta al terrorismo riesca presto a debellare completamente tale fenomeno credo sia giusto collaborare con le istituzioni e “tra” le istituzioni. Il terrorismo si combatte tutti insieme, magari limitando temporaneamente talune libertà, al fine di garantire il diritto di tutti alla vita e quindi il conseguente godimento di quelle stesse libertà. Se un’azienda ritiene di poter contrastare in maniera così determinata una decisione delle autorità e della magistratura forse è più un problema di mancanza di regole certe che di etica.