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Parkinson: nuova
scoperta che riapre
la strada
della prevenzione

di
Riccardo Ambrosini

Una recente scoperta effettuata dal team formato da ricercatori dell’istituto di ricerca genetica e biofisica del Cnr, dell’Istituto Telethon di genetica e medicina e dell’Istituto Santa Lucia, potrebbe portare, alla diagnosi precoce e allo sviluppo di nuove terapie che, se somministrate subito, potrebbero prevenire o rallentare la morte dei neuroni.

Ma vediamo di che si tratta, ricordando, anzitutto, che i sintomi del Parkinson sono noti all’uomo da migliaia di anni. Sembrerebbe, infatti, che le prime tracce di questa patologie siano state riportate in un manuale di medicina indiano risalente al 5000 A.C. poi ancora in un documento cinese di 2500 anni fa.
Tuttavia l’identificazione vera e propria del morbo di Parkinson avvenne solo migliaia di anni più tardi grazie al farmacista londinese James Parkinson. Fu proprio lui, infatti, nel XIX secolo a descrivere con precisione i sintomi di quella che lui chiamò “paralisi agitata”, patologia che, di li a poco, avrebbe invece preso il suo nome. Nel nostro paese sono 250 mila i malati di questo morbo, che ogni anno viene diagnosticato in 6000 nuovi individui, tra questi sempre più i giovani, un fenomeno che complessivamente costa al Sistema sanitario nazionale 1,3 miliardi di euro all’anno.

Il morbo di Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale che provoca spasmi corporei che rendono difficili anche le più semplici azioni quotidiane. Recentemente aveva fatto discutere la notizia che il colosso farmaceutico Pfizer abbia interrotto le ricerche su Alzheimer e Parkinson, dopo gli ultimi ingenti investimenti che non hanno portato i risultati attesi.

Paradossale, dunque, che a distanza di poco tempo una scoperta rischi di rivoluzionare l’approccio a questa invasiva patologia. Recentemente, infatti, il team di ricercatori italiani avrebbe scoperto un nuovo meccanismo di memoria cellulare attivato dall’apprendimento motorio, che viene alterato nelle fasi iniziali della malattia. La struttura modificata è quella che sovrintende all’apprendimento motorio e a determinarne l’alterazione è l’eccesso della proteina alfa-sinucleina, il cui accumulo porta poi in fase avanzata alla morte dei neuroni dopaminergici e alla manifestazione del Morbo di Parkinson.

“Oggi – spiega Elvira De Leonibus responsabile del Laboratorio di neuropsicofarmacologia dell’Istituto di genetica e biofisica del Cnr – sappiamo che l’aumento nella produzione della proteina alfa-sinucleina può da sola portare alla morte dei neuroni dopaminergici e, quindi, allo sviluppo della malattia. I ricercatori hanno quindi inserito all’interno delle cellule che producono dopamina il gene dell’alfa-sinucleina umana, in modo che questa venisse prodotta in quantità spropositate nelle cellule che rilasciano dopamina nello striato, determinandone la morte”. “Si è visto così – prosegue la ricercatrice – che molto prima di arrivare alla morte l’eccesso di alfa-sinucleina impediva agli animali di effettuare automaticamente i movimenti.”

Lo studio, finanziato dalla Fondazione Con il Sud e dal Miur e pubblicato sulla rivista Brain, rilancia la sfida della lotta contro il Parkinson, riaffermando l’importante ruolo della ricerca medica nel contrasto e nella prevenzione di questo morbo che fino a poco fa sembrava inattaccabile.

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