Si sta affermando nella società italiana una nuova patologia, la “qualipatia”, intesa nella accezione negativa, ovvero l’avversione ed il rifiuto per tutto ciò che richiama la qualità. Una patologia che archivia l’essere e santifica l’apparire, che esalta il contenitore a discapito del contenuto, che premia l’appartenenza e mortifica la competenza.
Si dirà che questo non è un problema di oggi ma un fenomeno che arriva da lontano. E, tuttavia, anche se al fenomeno possono essere attribuite origini più o meno antiche, esso ha subìto negli ultimi anni una progressiva, consistente accelerazione e da sintomo del decadimento del sistema si è trasformato in una vera e propria deriva strutturale.
Beninteso, il fenomeno è assolutamente trasversale e condiviso e interessa in maniera più o meno paritaria la politica, le Istituzioni, il mondo dell’informazione, il sistema accademico, il fronte economico. Insomma, la classe dirigente nelle sue diverse articolazioni ed il suo specchio, la cosiddetta società civile.
La “qualipatia” si esprime in forme diverse, ma ugualmente pericolose: dall’invidia per il successo dell’altro, anche se dovuto alla capacità e alla competenza, sino alla aspirazione ad una società di “uguali” dove uno vale l’altro indipendentemente dall’esperienza e dai titoli posseduti.
Il rifiuto, appunto, del concetto di qualità come metodo di selezione nella attribuzione di responsabilità pubbliche che premia, spesso, anche chi non ha un trascorso professionale di buon livello.
La qualipatia produce anche il rifiuto o il disconoscimento del passato e afferma un Paese senza memoria. Tuttavia, i portatori di nuove idee e di nuove opinioni devono saper tenere in conto, nella loro ansia di cambiamento e di rinnovamento, che, volenti o nolenti, anch’essi sono il frutto del passato ove si consideri il fatto che non possiamo essere tutti orfani.
Talvolta, sembra che, pure senza esserlo, siano in parecchi ad aspirare ad essere “orfani”. Ma, come diceva Le Goff, se si è orfani del passato, non si capisce il presente e non si progetta il futuro.
La qualipatia sul fronte politico e sociale
La qualipatia si manifesta attraverso i guasti provocati dall’introduzione del sistema elettorale, che hanno prodotto una classe politica “raccogliticcia”, superficiale, poco colta e provinciale, frutto dei nuovi meccanismi di selezione, quasi sempre controllati dall’alto o non del tutto trasparenti, e comunque non all’altezza di saper regolare e gestire il decentramento politico amministrativo. Perciò, sino a quando non sarà messa a punto una nuova legge elettorale, il Parlamento sarà composto da “nominati” invece che da “eletti”.
Un Parlamento funzionale ai vertici di partito o di governo non dovrà essere necessariamente “competente”. È importante che sia obbediente. E, in questo caso, la qualità passa in secondo piano, anzi può essere addirittura fastidiosa. Ciò che conta veramente è l’appartenenza.
Le nuove leve del Parlamento elette, nella maggioranza dei casi, rappresentano ed enfatizzano le caratteristiche dell’anonimato legato spesso alla giovane età e a curricula assai ordinari. In modo particolare, per gli eletti del Movimento Cinque Stelle la condizione di semplice “cittadino” è requisito essenziale per conferire dignità all’impegno politico.
Per altro verso, i “politici di professione” non godono di buona stampa e dei favori popolari per il disdoro che, spesso a ragione, li circonda per le vicende della diffusa corruzione, ma anche per il fatto stesso di interpretare il loro ruolo in modalità più tradizionali legate all’esperienza e alle competenze.
L’identificazione con il politico locale o nazionale non più su base ideologica o di riconosciute capacità professionali ma per prossimità, produce l’icona di un (o una) politico “della porta accanto” che è divenuta un punto di riferimento per chiunque voglia calcare il pubblico palcoscenico.
Il web contribuisce ad enfatizzare una presunta vicinanza nei tempi e nello spazio tra chi comunica con i social network ed i follower, ed in effetti la banalità che contraddistingue i contenuti dei tweet dei politici che parossisticamente inondano la Rete, risulta essere un fedele termometro del loro successo.
Su di un altro fondamentale aspetto, rappresentanti e rappresentati si assomigliano: nella esplicita negazione del valore delle Istituzioni, verso le quali i politici, come i cittadini, mostrano addirittura acrimonia. Sono pochi i settori e i soggetti politici, di maggioranza come d’opposizione, che “mettono la faccia” a difesa del “sistema”, anche perché non risulterebbe vantaggioso nella ricerca del consenso.
Dal quadro appena abbozzato, nel quale sembra avverarsi una pratica sovrapponibilità tra elettori ed eletti, si potrebbe generare un forte livello di complessiva soddisfazione: “uno vale uno”, ma anche “uno vale l’altro” e quindi la delega alla politica risulterebbe un meccanismo trasparente e alquanto semplificato.
Così, mentre cresce la necessità di un sistema sociale e di potere qualitativamente diverso e migliore, il potere non dà ancora nessuna prova di rinnovamento: la disoccupazione si allarga; si estendono le preoccupazioni sul presente e sul futuro delle giovani generazioni; i consumi sono in una pericolosa fase di contrazione; è aumentato il prelievo fiscale; languono gli investimenti in un momento in cui l’economia per crescere deve rinnovarsi e quindi necessita di ingenti capitali e di modelli organizzativi di qualità.
La modernità ha sviluppato la quantità trascurando la qualità, il modello industrialista tradizionale mostra gravi sofferenze e la classe dirigente nazionale “senza qualità” è oggetto di sfiducia sociale e di delegittimazione.
La qualipatia nella comunicazione nell’informazione
Nel tempo della comunicazione e dell’informazione, l’autorevolezza della classe politica si è consumata nei talk show, negli infiniti e inconcludenti battibecchi, nelle dichiarazioni spot, nella presenza “tanto per esserci”, negli slogan, nel voler apparire sempre e comunque, fino talvolta a superare addirittura la soglia del grottesco e del patetico. La televisione crea e distrugge, nello stesso tempo, personaggi di cartapesta che confondono l’essere con l’apparire.
L’esperienza insegna che gli unici a trarre qualche vantaggio dalla presenza in video sono i conduttori che, come i domatori del circo, riescono a far saltare i leoni da uno sgabello all’altro o a farli passare dal cerchio di fuoco o farli muovere a passo di danza.
Passando al linguaggio utilizzato nell’ipertrofico sistema televisivo (ma anche nei titoli di prima pagina dei quotidiani e dal web), l’utilizzo di un eloquio accurato è appannaggio di pochi reduci, anziani cultori di grammatica e sintassi.
Vincente quanto maggioritario risulta invece il linguaggio gridato e semplificato, il ricorso alla facile sloganistica, la ricerca della battuta, l’invettiva ed il ricorso all’offesa all’interlocutore o avversario.
Nello stesso tempo, con tante e apprezzabili eccezioni, la “casta” dei giornalisti dichiara di agire “in nome e per conto” dei lettori e teleutenti, ma in realtà il “cane da guardia” dei cittadini è un animale assai raro nelle redazioni e direzioni di grandi e piccoli giornali.
L’intreccio stretto con il potere politico e con quello economico-finanziario – che controlla buona parte del sistema editoriale – conferisce paradossalmente al mondo dell’informazione le caratteristiche proprie di un corpo intermedio che, di fatto, media e si inserisce con un posizionamento autonomo e con finalità sostanzialmente auto-riproduttive nelle relazioni tra i due poteri, a loro volta sostanzialmente consociativi.
La ragion d’esser legata al rapporto con i cittadini diventa così una variabile dipendente da interessi “altri” e, al contempo, “propri”: carriera, status, reddito, e così via.
C’è da augurarsi che il giornalismo italiano perda la sua spessa patina di tuttologia ponendo fine al paradosso che vede oramai la foltissima schiera dei professionisti più affermati impegnati “a rispondere”, più che a fare domande.
Il giornalista che intervista il giornalista è infatti divenuta la regola della comunicazione soprattutto televisiva, caricandolo in maniera spuria del ruolo di “interprete” dei fatti sociali, politici ed economici piuttosto che della funzione di indagatore.
Le figure del filosofo, dell’intellettuale, del letterato, dello scienziato negli ultimi vent’anni sono infatti scomparse dalle prime pagine dei quotidiani e dai salotti televisivi, fittiziamente sostituite dalla vocazione onnivora del “personaggio pubblico” giornalista, che però, quasi sempre, finisce con il banalizzare e isterilire il livello di riflessione e finanche la qualità del linguaggio.
D’altra parte, è anche vero che gli intellettuali, almeno quelli all’altezza del nome, si tengono a debita distanza dalla televisione i cui tempi obbligano ad esprimersi per slogan piuttosto che con ragionamenti compiuti.
Il controllo simbolico esercitato dai mezzi di comunicazione di massa ha destrutturato la dimensione reale dell’individuo e ha contribuito a destrutturare la tradizionale opinione pubblica, creandone una simbolica standardizzata. Lasciandosi alle spalle una cultura di servizio sociale, essi sono divenuti sempre più prepotentemente un potere votato alla stabilità del potere possibile in quel dato momento.
Hanno celebrato poteri corrotti e ora si votano a quelli della transizione nella speranza che nulla cambi nella sostanza: la verità diviene, di volta in volta, una funzione al servizio dei poteri prevalenti.
Intervento del Presidente dell’Eurispes, in occasione del’evento organizzato per “I primi 70 anni di Armando Editore, l’8 maggio scorso.