Il protezionismo liberista non risponde alle esigenze di giustizia sociale e transizione ecologica
Da un lato, infatti, alimenta una corsa al ribasso sui diritti e sugli standard (cd. dumping), nella speranza di guadagnare competitività e quote di mercato fronteggiando la concorrenza, a scapito tuttavia della dignità del lavoro e della sostenibilità ambientale. Dall’altro, disincentiva ogni tentativo di riformare le istituzioni, ostacolando qualsiasi sforzo di cambiare organizzazioni internazionali multilaterali come l’Onu, il Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale e mantenendo così intatto il paradigma che ha dominato la globalizzazione negli ultimi trent’anni. L’obiettivo sotteso è chiaro: mantenere l’assetto economico-politico vigente, preservare lo status quo, quello che ha garantito alle grandi potenze e ai colossi multinazionali una posizione di predominio che, negli ultimi decenni, ha alimentato diseguaglianze premiando le élite e gli stessi attori globali di sempre. Di fronte a questo scenario, l’alternativa non può essere la strenua difesa della globalizzazione neoliberale, né la chiusura protezionistica. Occorre, piuttosto, un cambio di rotta, un nuovo paradigma che ponga al centro un nuovo modello economico-sociale internazionale: un insieme minimo e inderogabile di diritti del lavoro, di tutele ambientali e di garanzie sanitarie che condizionino gli scambi commerciali e gli investimenti transnazionali.
Il sistema commerciale in cui siamo immersi è disegnato per privilegiare la competitività rispetto all’equità
L’idea non è nuova. Già all’interno dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), e persino nello statuto del Fondo Monetario Internazionale, esistono riferimenti a condizioni economiche che non ledano diritti fondamentali. Tuttavia, queste indicazioni sono rimaste lettera morta, soffocate da decenni di ortodossia neoliberale e da un sistema commerciale internazionale disegnato per privilegiare la competitività rispetto all’equità. Livelli minimi comuni di protezione sociale, un modello operativo capace di invertire la rotta, facendo in modo che l’accesso ai mercati – anche quelli europei – sia subordinato al rispetto di parametri sociali e ambientali vincolanti. Non si tratterebbe di nuove barriere commerciali in senso protezionista, ma di un riequilibrio normativo che renda la concorrenza internazionale meno distorsiva e più coerente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. L’Unione europea potrebbe avere un ruolo cruciale in questa transizione, a condizione che riesca a superare la frammentazione politica attuale e l’egemonia delle forze politiche conservatrici che guardano a Trump come a un modello. Invece di inseguire logiche di potere o farsi trascinare nella corsa agli armamenti o in guerre di dazi e svalutazioni sociali, l’Europa dovrebbe promuovere un patto globale per il lavoro dignitoso, per la tutela dell’ambiente e per la sanità pubblica universale. Un simile approccio, tra l’altro, potrebbe tornare a scuotere gli animi dei disillusi della politica e offrire una risposta credibile alle inquietudini dell’elettorato delle classi medie e popolari, sempre meno attratto dalle promesse, sistematicamente disattese, dei politicanti del nostro tempo. Garantire che la globalizzazione non significhi precarietà, desertificazione industriale e crisi ambientale è la premessa necessaria per recuperare consenso democratico, legittimità e autorevolezza politica.
Il protezionismo liberista è una proposta sistemica che punta a riscrivere le regole globali in senso regressivo
Il binomio “protezionismo liberista” non è un casuale incidente di percorso: è una proposta sistemica, che punta a riscrivere le regole globali in senso regressivo. Per contrastarla, non basta la denuncia: serve una proposta nuova e alternativa, concreta e radicale. È tempo di rimettere al centro dell’agenda politica globale una nuovo paradigma economico-sociale e di costruire un fronte transnazionale che si faccia portavoce e faccia di esso la propria bandiera. Un esempio emblematico è l’accordo commerciale tra Unione europea e Mercosur, congelato da anni proprio per le preoccupazioni legate alla deforestazione dell’Amazzonia e alla violazione dei diritti dei lavoratori. Bruxelles continua a trattare, ma senza vincoli stringenti su ambiente e diritti umani. È la dimostrazione di quanto sia urgente costruire un modello commerciale coerente con i principi dichiarati. Nel secondo dopoguerra, fu proprio un nuovo paradigma — quello keynesiano-socialdemocratico — a garantire crescita economica, coesione sociale e stabilità politica. Oggi, più che mai, serve lo stesso coraggio: un “New Deal globale” che coniughi regolamentazione, giustizia sociale e transizione ecologica. L’alternativa è lasciare il campo a un darwinismo geopolitico che non fa prigionieri.