HomeAttualitàReadiness 2030: la grande illusione del riarmo europeo tra...

Readiness 2030: la grande illusione del riarmo europeo tra spese in aumento e governance in crisi

di
Gabriele Cicerchia

Il 4 marzo scorso la Commissione ha presentato al Parlamento europeo – che l’ha approvato – un ambizioso piano di spesa militare da 800 miliardi di euro, volto ad aumentare la “prontezza” dell’Unione in risposta a possibili minacce esterne, Russia in primis. Le linee programmatiche e il funzionamento sono desumibili dalla Comunicazione “Accommodating increased defence expenditure within the Stability and Growth Pact”, dal “libro bianco della difesa europea” (Join white paper for European Defence Readiness 2030) e dalla proposta di regolamento per il Consiglio «establishing the Security Action For Europe (SAFE) through the reinforcement of European defence industry Instrument», già pubblicati lo scorso 19 marzo dalla Commissione. Il piano è articolato in sette pilastri: difesa aerea e missilistica, artiglieria, fornitura di munizioni e missili, droni e controllo a distanza di strumentazione militare, infrastrutture per la logistica e mobilità militare all’interno del territorio dell’Unione, sicurezza cibernetica, tecnologie AI e fisica quantistica, sistemi di protezione delle infrastrutture strategiche dell’Unione. Inizialmente denominato Rearm Europe, è stato poi rinominato Readiness 2030, ma la sostanza non cambia: un’accelerazione decisa verso il riarmo che, secondo le autorità europee, dovrebbe colmare la presunta “insufficienza” dell’impegno difensivo degli Stati membri. Una narrazione ripetuta ossessivamente, soprattutto in àmbito NATO, e fatta propria in larga scala dai media mainstream che la dipingono come una necessità storica.

Readiness 2030 è articolato in sette pilastri, tra cui difesa aerea e missilistica, artiglieria, droni e controllo a distanza di strumentazione militare

Eppure, i numeri sembrano raccontare una realtà diversa. Tra il 2014 e il 2024, l’Ue ha aumentato le proprie spese per la difesa del 121,7%, mentre quelle destinate agli investimenti sono cresciute addirittura del 325%. Secondo le proiezioni, entro il 2028 si dovrebbe passare da una spesa annua europea di 370 miliardi di euro a circa 700 miliardi. Per l’Italia, ciò significherebbe un balzo dagli attuali 33 miliardi a oltre 70 miliardi. Una corsa al riarmo senza precedenti, che si scontra però con una serie di contraddizioni profonde e ancora irrisolte. All’interno della strategia Readiness 2030, la Commissione Europea propone di raccogliere fino a 150 miliardi di euro attraverso emissioni sui mercati da destinare, tramite il nuovo strumento di prestito denominato SAFE (Security Action for Europe), al finanziamento di spese militari congiunte dei paesi membri. Il modello è simile a quello sperimentato con la linea SURE del Next Generatione Eu, durante la pandemia, e potrebbe attrarre soprattutto i paesi con spread più elevati rispetto ai titoli Ue. Secondo le simulazioni, solo una parte dei Paesi Ue aderirebbe, a causa della ridotta convenienza finanziaria rispetto a strumenti precedenti come SURE.

Tra il 2014 e il 2024 l’Ue ha aumentato le proprie spese per la difesa del 121,7%

Gli investimenti ammissibili riguarderebbero sistemi di difesa avanzata, tra cui: artiglieria, droni, cybersicurezza e guerra elettronica; ma resterebbero esclusi mezzi pesanti come caccia e carri armati. Rispetto al SURE, tuttavia, l’attrattività del SAFE appare più contenuta: con la crescita dell’emissione di debito comune, lo spread a favore dei titoli Ue si è infatti ridotto, rendendo il beneficio per i paesi ad alto costo del debito meno marcato. Secondo il rapporto The Military Balance 2025, pubblicato dall’International Institute for Strategic Studies (IISS), la NATO, nel 2024, ha speso circa 2.400 miliardi di dollari per la difesa, pari al 58,5% della spesa militare globale (dati SIPRI – Stockholm International Peace Research Institute). La Cina, seconda potenza, ha stanziato il 9,6%; la Russia il 5,9%; l’India il 3%; mentre il resto del mondo si divide il restante 33%. Sommando i bilanci di Germania, Francia e Italia, si arriva a 185 miliardi di dollari, una cifra già superiore a quella dell’intera Russia. Considerando l’intera NATO europea, si raggiungono i 450 miliardi di dollari: quasi il doppio della Cina e tre volte le spese russe.

La NATO nel 2024 ha speso circa 2.400 miliardi di dollari per la difesa, pari al 58,5% della spesa militare globale

La narrazione secondo cui l’Ue spende troppo poco per la difesa appare, dunque, quanto mai infondata. Anzi, il ritmo di crescita delle spese è tale da far temere un impatto serio sui bilanci pubblici, con inevitabili ripercussioni su settori fondamentali come sanità, istruzione, welfare e transizione ecologica. Oltre all’entità delle cifre, è importante interrogarsi sulla loro destinazione. Il piano europeo non prevede una vera politica comune di difesa: i fondi sono destinati ai singoli Stati membri e alle rispettive industrie belliche nazionali. Nessuna misura concreta affronta il problema strutturale della frammentazione: 27 eserciti, 27 comandi, 27 linee logistiche e di approvvigionamento, spesso incompatibili tra loro. Come esempio emblematico, il Rapporto Draghi ha ricordato che l’Ue dispone di ben 11 modelli diversi di carri armati, con conseguenti difficoltà di manutenzione, pezzi di ricambio e formazione tecnico-professionale. Più che rafforzare l’efficacia della difesa europea, il piano sembra creare un modello a più velocità e rischia di replicare una logica puramente nazionale, dispersiva e inefficiente. L’integrazione delle forze armate resta un miraggio, mentre il riarmo procede per linee parallele, spesso in concorrenza tra loro.

La narrazione secondo cui l’Ue spende troppo poco per la difesa è quantomai infondata

A oggi, l’Unione europea dispone di circa 1.400.000 militari attivi e 1.100.000 riservisti. Se si includono anche Gran Bretagna e Turchia – membri europei della NATO – le cifre aumentano: 141.000 effettivi e 70.000 riservisti per Londra, 355.000 e 378.000 per Ankara. Si tratta di una forza complessiva imponente, almeno in termini quantitativi. Ciò nonostante, si moltiplicano le richieste di ulteriore rafforzamento, anche attraverso un ritorno alla leva obbligatoria. Il dibattito è aperto in diversi Stati membri e, in alcuni casi, si parla già di sperimentazioni concrete. Una spinta che sembra ignorare tanto la realtà numerica, quanto l’assenza di un vero progetto politico e strategico comune. La vera questione rimane inevasa: occorre una politica estera comune e, quindi, una difesa comune, all’interno di un’Unione dotata di un governo centrale e legittimato democraticamente.

Più che rafforzare l’efficacia della difesa europea, Readiness 2030 sembra creare un modello a più velocità 

L’Europa non ha bisogno soltanto di armarsi, ma di superare la frammentazione sovranista che ne mina l’efficacia. Senza un comando unico, una dottrina condivisa e una razionalizzazione industriale, ogni incremento di spesa rischia di produrre solo nuove inefficienze e nuove disuguaglianze. In questo contesto, il rischio più grande non è solo la militarizzazione del bilancio europeo, ma lo snaturamento del progetto europeo stesso. Tra spinte federaliste e ritorni nazionalisti, l’Unione resta priva di una vera unità politica. A quasi ottant’anni dal Manifesto di Ventotene, l’Unione europea appare smarrita in un guado muscolare, incapace di scegliere se completare l’integrazione o ritirarsi in un arcipelago di sovranismi armati. Intanto, il prezzo lo pagano i cittadini europei, sempre più lontani da un’Europa capace di proteggere davvero i loro interessi e il loro futuro.

Leggi anche

Per rimanere aggiornato sulle nostre ultime notizie iscriviti alla nostra newsletter inserendo il tuo indirizzo email: