“Per la prima volta ci rendiamo conto che l’Europa non è necessariamente immortale. Nei decenni passati si dava per scontato che le istituzioni europee potessero soltanto crescere; si discuteva semmai con quale velocità procedere. Oggi vediamo la possibilità di un futuro senza l’Unione. E il tempo per scongiurare questo disastro è poco: tutto si gioca nei 18 mesi fra adesso e l’autunno 2019”. Venerdì 20 aprile, in un’aula della Luiss, Enrico Letta, oggi serenamente direttore della Scuola di affari internazionali di Parigi, ha descritto senza giri di parole i rischi. E discusso le possibili strategie per scongiurarli con due interlocutori di pari livello: l’economista e politologo Jean-Paul Fitoussi, che lo ospitava nel corso che tiene all’università romana, e Romano Prodi, che è andato a sedersi fra i banchi per poi dialogare con il suo successore a palazzo Chigi.
Sono tre, secondo Letta, le malattie che minano l’Unione. La prima è una inconsapevole autoreferenzialità: “Quando l’Europa ha cambiato, lo ha fatto sempre in relazione a sé stessa. Ora deve cambiare rapportandosi al resto del mondo”. C’è poi la spaccatura evidente fra la metà occidentale (e originaria) dell’UE e quella orientale. “A maggio si comincia a stendere concretamente il bilancio per i prossimi sette anni. I Paesi dell’ex blocco sovietico protesteranno a gran voce contro qualunque riduzione di fondi, considerandola una rappresaglia per il loro rifiuto di accogliere le quote di immigrati stabilite dalla Commissione”. Una posizione che non basta osteggiare, ma occorre capire. “Se in Francia, in Germania, in Italia gli stranieri sono intorno al dieci per cento della popolazione, in quei Paesi saranno lo zero virgola cinque. E si tratta di minoranze nazionali dei Paesi confinanti”. Sullo sfondo i popoli dell’intero continente, che hanno “staccato la spina sull’europeismo automatico, inerziale, qualche volta alimentato solo di retorica”.
Qui la prima terapia da applicare è una profonda, radicale “debrussellizzazione”. La capitale europea, ha spiegato l’ex enfant prodige della politica italiana, incarna agli occhi dei cittadini un’autorità aliena e non eletta, una burocrazia lontana. Distribuire nel continente le sedi del potere potrebbe accorciare queste distanze.
“Urgentissimo” è poi completare l’unione economica e monetaria, un lavoro interrotto nel 2013. Occorre costituire al più presto un Fondo monetario europeo, che possa agire rapidamente e da vicino quando una crisi tornerà a minacciare questo o quel Paese. Altrimenti non resta che affidarsi agli interventi del FMI, costosi, crudeli e demolitori del consenso, come si è visto in Grecia.
L’ostacolo, oggi ancor più che cinque anni fa, è la fortissima diffidenza tedesca verso ogni allargamento dell’integrazione monetaria. Per attenuarla, a giudizio di Letta, il Fondo andrebbe affidato a un ministro europeo, dotato di strumenti per la verifica dei conti dei vari Paesi. “Uno che possa alzare cartellini gialli, e rossi all’occorrenza”.
C’è da “prendere quel che di buono può offrire l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione”: dopo quarant’anni di veti di Londra, ora è possibile lavorare a un’armonizzazione fiscale su scala europea. E c’è da rifare l’Antitrust, su scala continentale e non più nazionale: “Negli Stati Uniti ci sono quattro operatori telefonici, in Cina tre, in Europa saranno 80. E’ chiaro che se vogliamo competere occorre puntare su ‘campioni’ europei”.
Dal suo banco, Prodi ha obiettato con affettuoso scetticismo. “La Germania si irrigidisce ogni giorno di più. E quel che è peggio, i socialdemocratici oggi sono molto più duri dei cristiano-democratici. Da Martin Schulz a Olaf Scholz è cambiato molto più che una vocale. A smuovere i tedeschi potrebbe essere solo una grossa paura, per esempio una crisi economica che colpisca proprio la Germania”. Un evento a dir poco improbabile nel breve tempo che Letta concede alle istituzioni europee per auto-riformarsi. Quanto ai Paesi centro-orientali, “un’Europa a due velocità non mi piace, ma per come si sono messe le cose è una necessità”.
In Italia, nel frattempo, non sono certo i partiti europeisti a navigare con il vento in poppa. “Eppure mai come oggi”, ha chiuso Letta, “è interesse del nostro Paese non solo restare nell’Unione, ma spingere verso una sua evoluzione capace di proteggerci meglio dalle tempeste mondiali”. Che prima o poi, non c’è dubbio, torneranno a imperversare.
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