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80 anni fa il D-Day che segnò la fine del nazismo

di
Giuseppe Pulina*

Nella storia fatta di battaglie e imprese militari si contano innumerevoli D-Day[1]. Tra i tanti, ce n’è però uno che per importanza ha finito con il meritare l’esclusiva del termine. Il 6 giugno se ne ricorderà l’ottavo decennale. Sono, infatti, ottanta gli anni trascorsi da quello che è passato alla storia come l’inizio di una delle più imponenti operazioni militari di sempre: l’Operazione Neptune, conosciuta anche come lo sbarco in Normandia, atto iniziale della più lunga e complessa Operazione Overlord. Nomi altisonanti – addirittura, un antico dio pagano e un appellativo da capo assoluto – per etichettare in codice l’evento che ha avviato l’inarrestabile fine del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Non meno degli storici di professione, a raccontarlo e scolpirlo nella memoria dell’uomo contemporaneo hanno contribuito anche romanzi e tante pellicole cinematografiche. Del resto, le prospettive da cui guardare l’evento che ha cambiato radicalmente il corso degli eventi, accelerando la caduta della barbarie nazista, sono davvero tante. Insieme possono restituire un’immagine caleidoscopica di quanto accadde in quel fatidico 6 giugno del 1944, in cui la vita di tanti uomini e tante donne di entrambi i fronti prese la direzione di un nuovo destino. E così sarà anche per le generazioni postbelliche che dalla memoria di quegli eventi si allontanano sempre più, faticando a ricordare ciò che si fa sempre meno presente alla loro memoria.

D-Day, non è solo memoria corta

Sarebbe ingiusto attribuire la memoria corta a chi, come le generazioni del presente, ha ricevuto in eredità un’immagine sbiadita del passato. In un’indagine condotta tra il 2014 e il 2016 nelle scuole del Veneto, un team di studiosi ebbe la conferma che «ci sono evidenti ragioni politiche, ideologiche e culturali che inducono, nelle nuove generazioni, la perdita di senso della storia, a cui si aggiunge l’interruzione del passaggio di memoria familiare e collettiva tra le generazioni, che, a sua volta, ha come effetto la rottura dell’interrelazione necessaria e ineludibile tra passato e presente»[2]. Si fatica a studiare a scuola la storia, disciplina vista come un noioso e inutile groviglio di nomi e date, perché la si racconta meno in famiglia, e anche quando diventa trama di un’avvincente serie tv, la storia funge da comparsa e contorno per dare ordine e una collocazione semplicemente temporale a vicende ritenute più interessanti, con il rischio non solo di eludere, ma anche di male intendere la necessaria interrelazione tra passato e presente. Una visione della storia viene allora a essere quella di una grande scatola capace di contenere dentro tante altre storie, così tante e separate però che alcune potrebbero sembrare meno rilevanti di altre.[3]

Storie da calendario nell’agenda della memoria

Un modo per ricordare il passato è sempre stato quello di farne oggetto di commemorazioni. È grazie al valore accordato a determinate ricorrenze – si pensi, ad esempio, al Giorno della memoria – che il passato riemerge più facilmente. Non tutto ciò che è passato riesce, comunque, a farsi strada nel grande viluppo di eventi che si sono succeduti nel tempo. Un’eccezione andrebbe fatta per il XX secolo, segmento temporale che gli studenti italiani sembrerebbero prediligere, anche se con modalità molto selettive. «Certo è che il Novecento – rilevano gli studiosi dell’indagine sopra citata – sembra essere rappresentato nell’inconscio collettivo degli studenti quasi esclusivamente dalle guerre mondiali, percepite più in una dimensione mitica che nella loro drammatica fattualità storica. La seconda metà del secolo è quasi ignorata, nonostante le indicazioni ministeriali ne prevedano la trattazione e i manuali ormai la affrontino ampiamente, almeno fino agli anni Novanta»[4]. Perché la memoria e la conoscenza del Novecento siano meno labili è stato, infatti, deciso da tempo di riservare l’ultimo anno d’insegnamento della storia ai grandi fatti del secolo scorso. Più tempo, più lezioni, più approfondimenti avrebbero dovuto garantire alle nuove generazioni una conoscenza più solida del passato, almeno di quello più recente.

D-Day, uno spartiacque fra un “prima” e un “dopo”

Come per tanti altri eventi del passato, anche per lo sbarco in Normandia è possibile che il ricordo si presti a interpretazioni diverse. Potrebbe esserci chi, anche tra gli addetti ai lavori, ne vorrà limitare la rilevanza, non riconoscendo a quanto accadde in quel lontano 6 giugno 1944 lo status di evento determinante; e ci sarà sicuramente chi, in linea con una lunga tradizione storiografica, di quella colossale operazione militare sottolineerà sempre l’importanza quasi decisiva che ha avuto nel corso del secondo conflitto mondiale, perché, se è vero che le sorti del nazionalsocialismo sembravano segnate (lo facevano pensare l’intervento americano, i fenomeni resistenziali e la grave debacle tedesca in Unione Sovietica), nessuno poteva dire con certezza per quanto tempo ancora il nazismo sarebbe rimasto in piedi. Aspetto non trascurabile in un’Europa devastata dalla guerra su cui incombevano per giunta le prime avvisaglie della Guerra fredda. Si potranno riprendere in mano e rileggere, allora, lavori come quello di Olivier Wieviorka, storico francese autore di tanti saggi sulla Seconda guerra mondiale, per il quale, rispetto al D-Day, per chi lo ha vissuto sulla propria pelle e per chi ne ha ereditato il ricordo, «vi è come uno spartiacque fra un “prima” e un “dopo”».[5]

Interrogativi sospesi

Il ricordo non è sempre scevro di riserve e interrogativi. E così, anche la ricorrenza degli ottanta anni dello sbarco degli Alleati sulle coste della Normandia potrà rilanciare vecchie questioni sospese o sollevarne di nuove. Potremmo chiederci, ad esempio, con quale atteggiamento ricordare quell’evento, se e come celebrarlo, se mettere in discussione narrazioni consolidate e vulgate da manuale scolastico e, infine, se il ricordo, una volta acquisito, abbia un significato unanimemente condiviso. Nelle risposte che verranno date non potrà non risultare evidente il peso di visioni geopolitiche che, per quanto capaci di fotografare il presente, non sempre dimostrano di essere altrettanto efficaci con il passato.

 

[1] È così che viene chiamato l’inizio di un’operazione militare. “D” sta per “day” (giorno), valendo, quindi, come l’indicazione del giorno stabilito per mettere in atto l’intervento. Attraverso un “D-Day” si può stabilire quanti giorni prima o dopo l’evento scatenante si siano verificati altri eventi a esso correlati.
[2] Cinzia Crivellari, Roberta Bravin, I Giovani e la storia. Un’indagine tra gli studenti delle scuole superiori del Veneto, Novecento.org, n. 10, agosto 2018.
[3] Tra gli studi più importanti sul rapporto tra i giovani e la conoscenza della storia c’è il saggio di Milena Rombi (La conoscenza della storia del Novecento in uscita dalla scuola secondaria di II grado. Indagine empirica su livelli di conoscenza, rappresentazioni ed esperienze didattiche degli studenti, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2013), al quale si richiamano anche gli autori delle ricerche sugli studenti delle scuole venete.
[4] Ivi.
[5] Cfr. O. Wieviorka, Lo sbarco in Normandia, il Mulino, Bologna 2009.

*Giuseppe Pulina, filosofo, giornalista, docente, componente del Comitato Scientifico dell’Eurispes.

 

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