Il mondo, per fare il verso al titolo di una celebre pellicola, non è mai stato un paese per vecchi, se non per poche eccezioni. Eppure questo mondo, inteso nella sua reale globalità, un paese per vecchi lo sta diventando e lo sarà sempre di più. Ragione per cui ripensare la vecchiaia è un’urgenza che solo stoltamente si potrebbe trascurare o non prendere in carico. Ripensarla significa farne oggetto di una nuova riflessione, ridefinirne i contorni e interrogarsi sull’incidenza di quei fenomeni che potrebbero avere addirittura determinato un cambiamento di senso, perché non è detto che essere vecchi oggi sia una “faccenda” diversa dal passato. Non è mai stata un’impresa facile vivere la vecchiaia come se fosse una delle diverse età della vita, pur insegnando l’antropologia culturale che anche questa, come tutto ciò che lambisce la dimensione dell’umano, può dare adito a interpretazioni diverse, condizionate dal contesto, non solo storico. Quando si diventa, allora, veramente vecchi? Che cosa rende realmente vecchi? Che cosa vuol dire esserlo e in che senso si può parlare di vecchiaia in relazione al genere? È opinione comune che vecchi si diventi quando si dismettono determinate abitudini o prassi della quotidianità. Quindi, con la vecchiaia ci si spoglierebbe di un abito per vestirne uno nuovo.
La vecchiaia interdetta
La vecchiaia è sempre stata un auspicio e una ragionevole aspettativa nella vita di un uomo. Morire di vecchiaia o campare a lungo, possibilmente sino a cento anni, sono alcune delle poche formule in cui la prospettiva della morte sembra declinarsi benignamente. Secondo gli antichi filosofi (Socrate ed Epicuro, ad esempio), la vecchiaia conferisce la saggezza, tanto che un vecchio che agisse poco saggiamente sarebbe l’esempio di un’esistenza sprecata o degna di biasimo. Ma, secondo molti filosofi dell’antichità, ci sarebbe di più: solo l’uomo che ha avuto la ventura di vivere a lungo può capire che temere la morte non è sensato e che dimostrare di non avere timore di fronte a essa può essere l’ultimo grande insegnamento da affidare alle nuove generazioni.
Una vecchiaia censurata, negata, manomessa
Questa immagine eroica e romantica della vecchiaia, sulla cui autenticità si potrebbero avanzare dubbi, non si confà più al nostro presente. Strideva già con la rappresentazione che ne fece Innocenzo III nel De contemptu mundi. In quest’opera, che ebbe una significativa fortuna in pieno Medioevo, il papa contemporaneo di Francesco d’Assisi e Federico II di Svevia, dipinge l’età senile come l’inevitabile tormento di una vita terrena destinata alla sofferenza e al decadimento. Otto secoli dopo, anche se per ragioni diverse da quelle addotte dal più grande papa teocratico della storia, la vecchiaia continua a far paura, tanto da essere concepita come un’età della vita che si vorrebbe interdire, possibilmente bandire, estromettere. Viene sempre più spesso vissuta con un senso di colpa (si pensi all’anziano, percettore di pensione, al quale viene di tanto in tanto ricordato di rappresentare, per via della sua avanzante longevità, una voce a perdere del sistema previdenziale) e di vergogna. Accade di osservare come lo “spettacolo” della vecchiaia venga censurato, occultato, manomesso. Accompagnata da un senso di vergogna per l’ineluttabilità di quello che si è diventati, si trasforma, volenti o nolenti, nel fardello di una colpa, accompagnata da conseguenze simili a vere e proprie misure punitive come la solitudine, la precarietà della salute, la vulnerabilità sociale e psicologica. Solo le tecniche pubblicitarie sanno proporre della vecchiaia una narrazione positiva e allettante, ma è fin troppo ovvio che la réclame di un antirughe (il volto ancora piacevole e sorridente di una settantenne diva del cinema) non dirà mai la verità. Quella che verrebbe rappresentata sarebbe non l’autentica narrazione della vecchiaia, ma la sua interdizione.
Edgar Morin e la prospettiva dell’amortalità
Esiste oggi una manualistica sull’invecchiamento felice. Sono tanti i libri che ci dicono come avvicinarci alla vecchiaia o come viverla meglio.1 La vecchiaia può essere allora un buon affare, e senza dubbio, sotto questo riguardo, lo è. La vecchiaia diventa un’età contraffatta, perché cessa di essere un semplice periodo della vita, configurabile come la soglia di un processo di cui si vorrebbe differire il raggiungimento. Cesserebbe di essere quello che è se, per assurdo, non esistesse la morte, anche se, come è chiaro a tutti, nessuno può promettere l’immortalità. Può essere però fatta slittare nel tempo e, visto che barare non è consentito, si potrà “giocare” con l’ineluttabile. Per descrivere questa condizione Edgar Morin ha coniato il termine “amortalité” (“amortalità”), volendo designare la possibilità propria ed esclusiva dell’uomo contemporaneo di prolungare la vita in modo indefinito. Sempre più coinvolto nel proposito di prolungare la vita, l’uomo differirebbe in un futuro incerto l’evento, comunque improrogabile in senso assoluto, della morte biologica.2 L’amortalità non coinciderebbe, tuttavia, con l’immortalità, ma sarebbe quanto di meglio l’uomo del nostro tempo crederà di poter sperimentare e augurare a sé stesso. E sarebbe, per riprendere il nostro discorso, un altro esempio di come la vecchiaia venga non solo negata, ma prevenuta per non essere pensata. Prevenuta e non premeditata.
L’età dei pregiudizi
D’altronde, perché si dovrebbe essere accomodanti e remissivi nei confronti della vecchiaia, quando si sa che la sua certificazione (il fatto che si sia diventati vecchi agli occhi degli altri) si converte facilmente in un fattore discriminante. Si parla di ageism, perché, al pari del sesso (sessismo), del gruppo etnico di appartenenza (razzismo) o della specie di cui si è individui (specismo), anche la vecchiaia può essere oggetto e motivo di discriminazione. Verrebbe da pensare che in un mondo in cui le old generations saranno maggioritarie, saranno forse meno i pregiudizi che dovranno combattere. Ma questo è chiaramente più un auspicio che una previsione dagli esiti scontati. Altrettanto arduo è immaginare un lieto fine per quello stereotipo annidato nello stesso pregiudizio che, come ha evidenziato Francesca Rigotti, chiama in causa la vecchiaia delle donne, per le quali i conti da fare con l’età possono essere più difficili e raramente positivi. Perciò, nel ripensare la vecchiaia non si dovrà omettere la rilevanza della questione di genereanche in questo specifico caso.
Un presupposto teorico per parlare di vecchiaia
Un punto di partenza può essere la tesi di Romano Guardini che dovrebbe fare da presupposto teorico a qualsiasi discorso – filosofico, politico o sociologico – che abbia come tema di riflessione la vecchiaia: «Nessuna fase della vita – si legge in un saggio del 1953 – può essere dedotta da un’altra».3 Significa che la vita non si configura esattamente come una rigida articolazione di stati anagrafici e che, come non ha tanto senso dire che si diventa adulti quando si smette di essere bambini, altrettanto dovrebbe valere per la senilità e l’età della vita che la precede. Altrimenti la vecchiaia sarebbe un libro già scritto che si chiude con il più prevedibile e indesiderabile dei finali. Evitare che sia così è una delle grandi sfide del nostro tempo.
1 R. Westendorp, Come invecchiare senza diventare vecchi. La scienza della longevità felice, Ponte alle Grazie, Milano 2015; E. Soresi, P. Grazia, Come ringiovanire invecchiando, UTET, Torino 2019; G. Isaia, Invecchiare senza invecchiare, Pacini, Pisa 2018.
2 Cfr. G. Pulina, Dizionario di antropologia filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2022, p. 14.
3 R. Guardini, Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano 2017, p. 8.
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