In Italia manca un sistema di accoglienza: intervista a Simone Andreotti, Presidente coop. In Migrazione

accoglienza

Nel nostro Paese si registra l’inesistenza di un vero e proprio sistema di accoglienza: la gestione dei migranti sembra essere un tema che riguarda solo il Ministero dell’Interno, invece di essere considerato come una opportunità e parte integrante del Sistema-Paese. Due sistemi di accoglienza antitetici e antagonisti fanno parte di una procedura più burocratico che di accoglienza, priva di progettualità e vittima di sfruttamento mediatico. Affrontiamo il tema dell’accoglienza e delle nuove politiche a riguardo con Simone Andreotti, Presidente della cooperativa In Migrazione.

Lei è uno dei pochi che insieme al quadro generale dell’accoglienza italiana, con riferimento al sistema normativo, procedurale e formativo, si occupa anche di studiare i capitolati d’appalto dei bandi pubblici per l’accoglienza. Ci vuole raccontare quali sono le caratteristiche e le contraddizioni che derivano da questa sua ricerca?

La principale contraddizione che continua ad esistere da decenni (senza alcun sostanziale cambiamento) è l’inesistenza di un sistema italiano di accoglienza. Manca completamente la volontà di studiare, riflettere e dibattere seriamente al fine di operare una reale trasformazione in senso virtuoso del sistema di accoglienza del Paese, avviando un percorso pluriennale di cambiamento per arrivare a costruire un sistema dedicato ai migranti forzati, efficace, efficiente e trasparente.

Il vero dramma non è tanto che non siamo arrivati ancora all’obiettivo, ma che come Paese non abbiamo neanche immaginato il percorso. Dal 2000 ad oggi (in ben 22 anni) si continuano stancamente a replicare abitudini e modelli spesso perdenti e già sperimentati, senza trovare significative risposte a problemi sempre più evidenti, con un approccio che continua ad essere fondato su tre accezioni. La prima accezione è quella emergenziale, ossia volta a trovare frettolosamente soluzioni temporanee per gestire flussi di migranti forzati, largamente prevedibili e in linea generale costanti per quantità e intensità. La seconda è quella settoriale, dato che si ragiona in modo esclusivo come Ministero dell’Interno e non come sistema Paese. È invece evidente come l’accoglienza incroci in modo rilevante tanti altri soggetti istituzionali. Basti pensare alla giustizia coi suoi tempi dei ricorsi, per citare solo una problematica, che incidono in modo determinante sui tempi dell’accoglienza; alla sanità e ad alcuni suoi servizi territoriali che vedono una crescita di utenti vulnerabili cui dare risposte specialistiche, Enti locali, ecc. La terza, infine, è quella mediatica che consiste nel vivere e rappresentare l’accoglienza dei rifugiati come un problema scomodo e non come un’opportunità (basti pensare – come anche recentemente per l’ennesima volta ha rilevato l’Istat – all’inesorabile calo demografico che stiamo vivendo). La caratterizzazione emergenziale è particolarmente evidente in un’accoglienza che distingue tra due sistemi paralleli estremamente diversi che non dialogano tra loro, ma che continuano ad agire in modo autonomo e indipendente: i Centri di Accoglienza Straordinaria CAS, gestiti dalle Prefetture, e il Sistema di Accoglienza Integrato SAI, che vede protagonisti i Comuni. Non si tratta solo di due assetti istituzionali diversi, ma di approcci, metodologie, risorse e standard che risultano di fatto antitetici, lasciando al caso oppure alla fortuna/sfortuna la possibilità per un richiedente asilo di “scivolare” nell’uno o nell’altro.

I CAS appaiono come luoghi di attesa e contenimento delle persone che richiedono asilo, su un modello che resta fondamentalmente quello dei vecchi CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), con piccoli adattamenti non sostanziali e non significativi. Si tratta di elementi che sono evidenti confrontando i vecchi capitolati tecnici dei CARA con quelli odierni dei CAS, i quali risultano sostanzialmente simili, vissuti più come strumento burocratico che di indirizzo gestionale e metodologico. In altri termini, un “non modello” di accoglienza che resta in sostanza immutato nei decenni nonostante il suo evidente fallimento.

I SAI, invece, rappresentano senza dubbio un elemento di eccellenza dell’accoglienza Made in Italy, ma resta, in tutta evidenza, immutato dalla sua nascita e non viene vissuto come scommessa per il futuro (non è mai riuscito a diventare il sistema di accoglienza italiano, ma è restato uno dei sistemi di accoglienza, quantitativamente minoritario). Basti pensare che al 15 novembre 2022 erano oltre 75.000 le presenze nei CAS a fronte di circa 33.000 nei SAI (fonte: cruscotto statistico giornaliero Ministero dell’Interno). Il SAI appare come un gioiellino (e indubbiamente lo è) da preservare e valorizzare, ma non viene trasformato in un sistema da sviluppare, sostenere e aggiornare. Con il mutare della realtà economica, occupazionale, organizzativa del Paese, invece, non si è mai proceduto, in 23 anni, ad attualizzare il sistema SAI, non perché non dimostri la capacità di funzionare, ma per viverlo e renderlo contestualmente capace di “reggere” le sfide future e di trasformarsi in unico riferimento per l’accoglienza italiana.

Come vive l’accoglienza in generale il sistema istituzionale e politico del Paese?

Da sempre, l’accoglienza viene vissuta dalle Istituzioni e dalla politica come uno spiacevole problema di cui farsi frettolosamente e temporaneamente carico: un tema scomodo il cui focus non sembra tanto quello di capire “quale accoglienza” e come renderla efficace tanto per i beneficiari quanto per la comunità ospitante, ma come spendere meno denaro possibile, come ad esempio quando si sono tagliati i famosi 35 euro pro-die pro capite riconosciuti dallo Stato ad ogni migrante accolto, parola d’ordine diventata ormai luogo comune nel pensare comune, col solo scopo di non perdere popolarità. Al centro del problema non sembra quindi esserci l’esigenza di eliminare le “mele marce”, gli sprechi, le esperienze che dimostrano di non funzionare, ma di tagliare orizzontalmente i 35 euro presupponendo che il problema dell’accoglienza italiana sia esclusivamente questo.

Il risultato è evidente: si sono tagliate le gambe ai virtuosi mentre continuano a camminare, nella migliore delle ipotesi, i mediocri. D’altronde, ancora oggi per nessuna tipologia di ciascun centro si valuta (e si riconoscono contributi) in rapporto ai risultati raggiunti. La valutazione avviene invece in relazione all’adempimento di procedure burocratico-amministrative. Per fare soltanto un esempio: si ricevono finanziamenti per garantire un numero minimo di ore di insegnamento di italiano e non in relazione alla reale partecipazione alle lezioni dei beneficiari e al loro progresso di conoscenza linguistica tra l’inizio e la fine del percorso. Spesso tutto si traduce nella busta paga dell’insegnate e nel registro presenze degli alunni, non coniugando questo con il vero scopo del servizio: far apprendere la lingua italiana.

Tutto ciò, nei CAS (con il taglio ai 35 euro voluto dal Ministro dell’Interno di allora, Matteo Salvini, e di fatto confermato dai successivi ministri) assume una situazione grottesca: chiedo servizi minimi evidentemente non idonei ai bisogni degli ospiti e mi limito a verificare burocraticamente (in modo non sempre efficace) che vengano eseguiti (già sapendo a priori che non possono ottenere risultati). In estrema sintesi, l’Italia continua immutabile a non affrontare il tema, continua a mettere in campo ricette vecchie e ampiamente inefficaci (CAS), senza avviare una riflessione seria e strutturata volta a creare un vero Sistema di accoglienza nazionale degno di questo nome.

Verso quale direzione, come Paese, stiamo andando rispetto al nostro sistema di accoglienza?

Andiamo sempre di più verso una politica che vede l’immigrazione come mero strumento di propaganda, ben lontana dal voler affrontare i veri nodi e i veri problemi (che restano immutati). Dai tempi di “Mafia Capitale” continuano le inchieste e le denunce per “mala gestione”, commistione con la malavita organizzata, ruberie ai danni dei beneficiari, ma questo non porta ad una trasformazione sostanziale: si continua a puntare di fatto sui CAS per accogliere i richiedenti asilo, senza trasformarli in qualcosa di efficace, moderno e ragionato. Mi sembra si stia avverando la profezia che già nel 2019 avevamo fatto studiando le linee guida ministeriali sui CAS: un sistema che mortifica e porta alla chiusura le realtà virtuose in ragione del fatto, ad esempio, che per i centri di piccola e media dimensione viene meno la sostenibilità, per favorire chi lavora su grandi numeri e grandi profitti, in un contesto strutturale di crollo dei già precari standard qualitativi e di efficacia dei Centri di Accoglienza Straordinaria.

Esiste un problema relativo al rapporto tra accoglienza e contesto sociale nel quale un centro viene avviato e si sviluppa? Quali sono questi problemi e come superarli?

Il nesso è evidente: accogliere persone col fine di avviare un percorso di inclusione necessita di un intenso rapporto con il territorio e con la comunità, che può essere motore virtuoso o, al contrario, un freno pericoloso (dipende appunto dal contesto sociale ed economico in cui si inserisce un progetto di accoglienza). La ripartizione delle persone accolte (ovvero il numero massimo di centri e di capienze sul territorio) segue ancora una volta una logica emergenziale e mediatica che implicitamente racconta l’accoglienza come un problema invece che come un’occasione (mettendo al centro i posti da trovare per accogliere e non i percorsi di inclusione che si possono generare).

Il riferimento è esclusivamente connesso al rapporto persone accolte/residenti di quel territorio (il che non è sbagliato per evitare eccessive concentrazioni, ma non può essere un sistema efficace dal punto di vista dell’inclusione). L’accoglienza non è, infatti, un processo statico ma fortemente dinamico: se in un Comune, ad esempio, “autorizzo” un massimo di 10 posti in relazione alla popolazione residente, questo numero non è evidentemente realistico, perché ogni sei mesi usciranno ospiti e ne arriveranno altri, facendo velocemente saltare la proporzione con la popolazione residente, rischiando di saturare velocemente le possibilità di inclusione su quel territorio.

Un tale sistema distributivo regge sull’implicita realtà che la maggior parte delle persone accolte non restino sul territorio (con un fallimento dell’inclusione), facendo così posto a nuovi richiedenti asilo. In questo senso, è un sistema distributivo improntato sull’emergenza (trovare posti per accogliere) e sulla mediaticità (rassicurare la popolazione dalla percezione tutta mediatica di invasione dei migranti), più che sull’inclusione. D’altronde, solo la qualità dell’accoglienza può trasformare i centri da problema a opportunità per la comunità locale (e il nostro sistema di accoglienza con i CAS rischia di determinare più problemi che opportunità, tanto per le persone accolte quanto per la comunità ospitante).

Ragionare in termini di qualità e inclusione significherebbe aggiungere alla formula della distribuzione (numero e capienza centri/popolazione residente) un coefficiente di potenziale inclusione (prendendo in considerazione, ad esempio, standard qualitativi/quantitativi dei servizi pubblici, situazione economica e occupazionale di un territorio, andamento del mercato immobiliare, valutazione sulla criminalità, ecc.). In altri termini, ragionare sulla capacità di inclusione di un territorio e stabilire su questa base il numero di persone da accogliere, evitando la possibilità pericolosa di aprire centri in un territorio per creare posti di lavoro, con un’impostazione rischiosa di iniezione di fondi pubblici finalizzati ad un’attività che diventa fine a se stessa e da cui poi una comunità rischia di dipendere.

Come cooperativa avete più volte affrontato il tema dello sfruttamento del lavoro degli immigrati con riferimento in particolare alla provincia di Latina. Si ricordano i dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” oppure “Sfruttati a tempo indeterminato”. Anche su questo versante cosa fare perché lo sfruttamento dei migranti smetta di essere un sistema articolato che condiziona la buona agricoltura e la legalità, con violazione a volte dei diritti umani?

La relazione diretta tra cattiva accoglienza e rafforzamento delle economie mafiose e illegali è ormai evidente. La presenza di centri di accoglienza gestiti male (per lo più CAS vissuti come luoghi dove dormire e mangiare) in taluni territori (soprattutto quelli dove è già forte un’economia sommersa e improntata sullo sfruttamento) crea un esercito di schiavi, facile preda della malavita e dei caporali. Un fenomeno che avevamo già denunciato in relazione all’agricoltura (poi confermato da inchieste giudiziarie), dove i richiedenti asilo rinforzano le reti dei caporali e degli imprenditori sfruttatori, creando una nuovo esercito di lavoratori e lavoratrici senza diritti e senza strumenti di emancipazione, da sfruttare nei campi, anche a danno delle tante aziende virtuose che caratterizzano la loro produzione agricola all’insegna della qualità e dei diritti, che subiscono così una micidiale concorrenza sleale, tanto da rischiare di portarle alla chiusura.

*Sociologo e ricercatore dell’Eurispes.

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