Profughi e migranti: un’infinita emergenza umanitaria
La scorsa estate oltre alla crisi afgana ne è esplosa un’altra, di livello internazionale, che ha visto Polonia e Lituania accusare il governo bielorusso di spingere migranti provenienti da Siria e Afghanistan – ma anche da Paesi africani come la DRC e il Camerun – ad oltrepassare i confini dell’Unione europea. I Paesi dell’Ue hanno eretto barriere, aumentato le pattuglie di confine, proceduto a respingimenti e ristretto l’accesso alle organizzazioni umanitarie ai confini con la Bielorussia. A farne le spese sono stati migranti e richiedenti asilo. Vittime di violenze su entrambi i confini, intrappolati in condizioni disumane, alcuni sono morti, altri sono stati rimpatriati dalla Bielorussia in Iraq e Siria.
Oggi, all’alba di questa nuova guerra, tra Russia e Ucraina, migliaia di profughi si stanno dirigendo verso la Polonia e la Romania per sfuggire alla guerra e raggiungere l’Unione europea. In Italia ci sono circa 250.000 ucraini e si prevede che molti tenteranno di raggiungerli, soprattutto familiari.
L’Unione europea e i Paesi direttamente coinvolti sono chiamati ad organizzare rapidamente un sistema di accoglienza e integrazione efficace per questa nuova emergenza umanitaria. Ciò accade peraltro sullo sfondo di una rinnovata sensibilità dell’opinione pubblica europea e occidentale in generale, colpita dal dramma che vivono gli afgani, da quanto accade al confine tra Bielorussia e Polonia e, oggi, dalla tragica fuga dei profughi ucraini.
Immigrazione, la necessità non rinviabile delle riforme
Occorre tuttavia soffermarsi su un dato di fatto. I migranti che fuggono da persecuzioni, guerre, calamità naturali, fame e povertà, soprattutto negli ultimi dieci anni, sono arrivati in Europa principalmente via mare. I flussi sono probabilmente destinati a rimanere importanti, così come le statistiche dei morti e dispersi, a meno che non si attuino delle riforme che consentano di trattare il fenomeno in forma strutturale e non perennemente emergenziale. Si tratta di riforme che, oltre a consentire di salvare vite umane, potrebbero rivelarsi meno costose di quanto si spenda oggi per fare fronte al fenomeno migratorio in maniera emergenziale.
Importanti innovazioni possono essere apportate dal nostro Paese, che potrebbero consentirci di accrescere ulteriormente la nostra forza negoziale nei confronti dei partner europei.
Modificare il nostro approccio verso l’immigrazione
Oggi uno straniero può immigrare e poi restare regolarmente nel nostro Paese, praticamente solo se all’arrivo fa richiesta di asilo e ottiene, successivamente, lo Status di Rifugiato. Tuttavia, senza contare le recenti crisi umanitarie che si sono susseguite negli ultimi anni, dal 2011 continuiamo a constatare che l’80/85% dei migranti che arrivano ogni anno nel nostro Paese non hanno diritto all’ottenimento dello Status di Rifugiato. Sono i cosiddetti migranti economici. I demografi prevedono per il 2050 una decrescita della nostra popolazione pari circa 6 milioni di Italiani in meno. Inoltre, gli italiani che emigrano ogni anno si aggirano tra i 100 e i 200.000. Il nostro sistema pensionistico e la nostra economia sono destinati ad essere sottoposti ad una crescente pressione.
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Appare pertanto necessario che il Paese si doti di politiche che incentivino le nascite e che prevengano l’emigrazione. Ma possiamo, altresì, prevedere di rivedere la gestione del fenomeno migratorio, modificando il nostro approccio.
L’Europa e l’Italia hanno bisogno dell’immigrazione
Da anni i dati delle Agenzie Internazionali ci dicono che gli immigrati in Europa contribuiscono per il 70% alla flessibilità occupazionale, di cui ha bisogno anche l’Italia, e che avremmo bisogno di 3 milioni di lavoratori immigrati ogni anno, Italia inclusa. La pandemia da Covid19 ha messo in risalto quanto i lavoratori immigrati sopperiscano a quei lavori che i nativi non vogliono più fare (ad es. raccolta di prodotti alimentari in campo agricolo, lavori domestici, edilizia). Le statistiche ufficiali ci dicono che gli stranieri regolarmente presenti nel nostro Paese lavorano legalmente e contribuiscono per circa il 9% del PIL, con un surplus positivo per le casse dello Stato che negli ultimi 5 anni ha toccato tra i 500 milioni e i 4 miliardi di euro, a seconda dell’anno e delle modalità di calcolo tra entrate e uscite per immigrati in arrivo e stranieri residenti.
Si tratta di cifre molto significative, da cui si potrebbe ripartire per realizzare un cambio di direzione decisivo nella nostra politica migratoria: quello di rivedere la legislazione esistente per consentire ai migranti di entrare in forma regolare non soltanto per richiedere lo Status di Rifugiato, ma, anche, per lavorare in Italia in modo regolare.
Come gestire in modo differente i flussi migratori?
Dato che l’impianto legislativo italiano è fermo al 2002, basterebbe rivedere la legislazione vigente, riaprendo ancor di più le quote di entrata per motivi di lavoro, avendo, magari, prima identificato con le associazioni imprenditoriali e di categoria e con la Conferenza Stato-Regioni e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani, i settori economici e le aree geografiche dove c’è più bisogno di lavoro e crescita demografica nel nostro Paese. Questo eviterebbe anche di avere migliaia di immigrati irregolari che lavorano in nero e sono canalizzati verso degrado e marginalità, anziché essere inseriti in percorsi di accoglienza e integrazione a beneficio di tutti, e permetterebbe di organizzare un sistema di accoglienza e integrazione strutturale – non perennemente emergenziale – ponderato ed efficace, potendo prevedere numeri e luoghi di entrata ogni anno.
Le rimesse dei migranti e il sistema delle quote
Tale obiettivo, inoltre, sarebbe possibile anche in considerazione del fatto che i Paesi di origine sono interessati, più di ogni altra cosa, alle rimesse che arrivano dai loro connazionali che risiedono e lavorano regolarmente all’estero. Basti pensare che, nel 2020, le rimesse globali trasmesse al proprio Paese dai migranti che lavorano all’estero sono ammontate a 470 miliardi di dollari. E si stima che almeno un altro 40% non sia tracciabile. Mentre l’aiuto pubblico allo sviluppo e gli investimenti privati esteri nei Paesi in Via di Sviluppo sono stati rispettivamente di 161 e 229 miliardi di dollari, per un totale di 390 miliardi di dollari (dati della Banca Mondiale). In questo contesto, non appare irrealistico immaginare che gli stessi Paesi di origine sarebbero interessati a stipulare accordi per limitare e controllare le uscite dai loro Paesi, a fronte di maggiori garanzie sulla possibilità per chi parte di lavorare e risiedere regolarmente nel Paese di destinazione, con prospettive di integrarsi e portare un valore aggiunto alla propria vita, al PIL del Paese di origine e all’economia del Paese ospitante.
Grazie ad una maggiore apertura del sistema delle quote si potrebbe aumentare il rilascio dei visti di ingresso in forma ponderata, prevedere moduli di formazione pre-partenza in loco, specie per le categorie più fragili, e concordare modalità per gli eventuali rimpatri dall’Italia coordinate dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), in forme ordinate e rispettose dei diritti umani.
Una revisione dell’attuale legislazione del nostro Paese sulla gestione del fenomeno porterebbe pertanto benefici in termini demografici, occupazionali, economici e, grazie ad una più efficiente organizzazione degli arrivi, umanitari. È una grande opportunità, per l’Italia e per l’Europa. Il Sistema Paese è pronto per coglierla.
*Direttore generale Sanità di Frontiera – Direttore Centro per le Migrazioni, Ortygia Business School.