La paura che percorre il mondo contemporaneo ha come icona, e paradossale movente, un evento che al contrario avrebbe dovuto essere liberatorio: la caduta del muro di Berlino, nel 1989. E, come pista di decollo, la successiva globalizzazione dell’economia. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, il trauma degli orrori subiti, le nuove costituzioni entrate in vigore nei due paesi totalitari usciti sconfitti come Italia e Germania, la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, servivano certamente da deterrente contro ogni tentazione autoritaria, e il senso di sicurezza, collegato alla ripresa economica, era diffuso e incoraggiante.
Per tre decenni il mondo occidentale si cullò nel conforto di una forte crescita economica e sociale, accompagnata da nuovi spazi di democrazia, di libertà, di tolleranza, di rifiuto definitivo della violenza come mezzo di composizione dei conflitti. Lo scoppio di una guerra atomica era certo da mettere in conto, ma fortunatamente i due grandi blocchi contrapposti non andarono mai oltre una guerra “fredda”, a bassa intensità. Anche quando il precario equilibrio si incrinava ed aumentava il rischio, il pericolo era visto come lontano e in fondo improbabile (con l’eccezione della crisi di Cuba, risolta per la prudenza dei due protagonisti).
L’Italia fu interessata negli anni ‘70 (definiti “gli anni di piombo”) da stragi eversive, terrorismo brigatista, omicidi politici, tentativi di colpi di Stato, varie centinaia di sequestri di persona a scopo di estorsione ad opera delle cosche mafiose, scontri continui e violenti tra esponenti degli “opposti estremismi”, ma non per questo la gente cedette alla paura. Al contrario, il Paese seppe reagire con fermezza scendendo in piazza, manifestando apertamente in difesa della democrazia. Fu proprio in quel decennio che vennero portate a termine importanti riforme come la legge sul divorzio (1968) poi confermata con il referendum del 1974, la legge sull’aborto (1978), la riforma del lavoro con lo Statuto dei lavoratori (1970), la riforma del diritto di famiglia (1975), la riforma del processo del lavoro (1973), la chiusura dei manicomi (1978), la riforma della sanità pubblica con l’istituzione del servizio sanitario nazionale (1978). In nessun altro decennio della nostra democrazia si ebbe una tale fioritura di leggi che, in attuazione della Costituzione, introducevano diritti civili che ci portarono al livello delle più moderne democrazie europee.
Fu la fine del regime comunista a segnare il tramonto del “welfare state”, lo stato sociale gioiello delle socialdemocrazie europee, realizzato quasi in competizione con le dittature d’oltrecortina. A partire dal 1991, la globalizzazione agisce poi a livello economico mondiale portando insicurezza, instabilità e preparando mutamenti politici in direzione contraria alla stagione delle socialdemocrazie. Finito insomma il comunismo, il capitalismo globale, libero di espandersi senza limitazioni, non aveva più interesse a sostenere un costo sociale non più necessario. Il terreno era stato preparato da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher, la nuova religione, quella della flessibilità del rapporto di lavoro, e il mix di conservatorismo e liberalismo che si affermò un po’ dappertutto, portarono in breve a un grave divario fra le classi sociali, a favore dei più ricchi, la cui condizione non si trasferì affatto “a cascata” ai meno abbienti, come era stato proclamato.
E’ in questo contesto che sorgono i partiti populisti, che fanno della paura un uso politico, per attrarre il massimo dei consensi. La neonata Lega Nord lancia le sue invettive contro “Roma ladrona” e il Meridione in blocco. Nella costruzione della paura, il bersaglio diventano ben presto i “diversi”, come rom e sinti, e la rabbia si estende anche al Sud. A Ponticelli, periferia est di Napoli, nel novembre del 2008 viene devastato un campo rom, sull’onda della falsa notizia, secondo cui una zingara avesse tentato di rapire una bambina. Episodio analogo a Poggioreale nel 2014, che provocò l’esodo di 600 rom. Dai rom si passa alla paura dei migranti in genere, montata ad arte, anche con l’aiuto dei mezzi di comunicazione, con gli sbarchi di un gran numero di africani e asiatici, richiedenti asilo e migranti irregolari. E poiché i flussi coincidono con una serie di attentati eseguiti dai terroristi islamici in Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, ecco che in tutto il continente si celebra il collegamento “nuovi arrivi eguale terroristi”, anche se la grande maggioranza dei responsabili erano migranti di seconda generazione, con tanto di cittadinanza nei vari paesi d’Europa. A Varsavia l’11 novembre 2017 sfilano decine di migliaia di persone al grido di “Polonia pura, Polonia bianca” e “rifugiati al diavolo”. In Ungheria, poi, il premier Orban accende una polemica contro il miliardario e filantropo George Soros, accusandolo di essere favorevole all’accoglienza dei migranti.
In Italia le “fake news” impazzano: gli immigrati sono ospitati in alberghi a quattro o cinque stelle, percepiscono 35 euro al giorno oltre vitto e alloggio, rubano il lavoro agli italiani. I 35 euro, invece, sono il costo unitario per migrante corrisposto ai centri di accoglienza, i quali riducono al minimo la spesa pro capite per consentirsi lucrose rendite. Si parla con insistenza dei delitti dei migranti, quando il loro tasso di criminalità è in linea con quello degli autoctoni. Li si accusa di stupri, quando in Italia il numero delle violenze sessuali (escluse quelle intra moenia) è stato di 4 mila su 60,6 milioni di abitanti, mentre in Germania di 29.243 su 82,6 milioni, e in Belgio di quasi il doppio dell’Italia (7.408) su una popolazione di 11,3 milioni. Sono dati Eurostat 2015, che certificano come il nostro Paese abbia la percentuale di stupri fra le più basse d’Europa.
Ma non c’è soltanto la paura dei “diversi”. Uno dei fenomeni meno comprensibili e più pericolosi per la collettività è la polemica contro i vaccini, indotta dalla diffusione di falsità sulla Rete o per finalità di contestazione politica. I vaccini hanno salvato la vita di milioni di persone in tutto il pianeta, facendo scomparire pericolose malattie come la poliomelite, il tetano, il morbillo, oltre ad assicurare l’allungamento della vita. Non è un caso che le più pericolose malattie infettive, come l’Hiv/Aids, la tubercolosi e la malaria, siano tra le poche per cui non abbiamo vaccini. Del resto, le sciocchezze messe in rete dal popolo del web, sono state fra le concause di una riduzione delle vaccinazioni, che nel 2016 e 2017 hanno portato in Italia a un’epidemia preoccupante di casi di morbillo. E stupisce che avverso l’obbligo di vaccinazione imposto dal governo, istituzioni importanti come la Regione Veneto abbiano chiamato in causa anche la Corte Costituzionale, che ne ha respinto il ricorso.
La paura ci fa guardare all’indietro. Trova un catalizzatore nel web e nei social, che con i “mi piace” e “non mi piace”, rafforzati da faccine allegre o corrucciate, sono la sintetica rappresentazione del linguaggio del populismo. E trova una spinta, purtroppo, nei giornali e nella tv, che la assecondano, con il riduzionismo delle informazioni e la voglia di “capocrazia” che veicolano. In Italia e in Europa il tratto dominante è quello della nostalgia degli Stati nazionali del Novecento, con ideologia fortemente autoritaria e identitaria. Il futuro ci appare denso di incertezze e ci genera angoscia, il passato ci tranquillizza, ci rassicura. Per dirla con Zygmunt Bauman, abbiamo invertito la rotta e navighiamo verso il passato. O, se si preferisce, camminiamo a ritroso verso il futuro, con il rischio di andare a sbattere.
E’ il passato che avanza, con i suoi fantasmi, e fa crescere, in Europa, una sorta di “Internazionale autoritaria”. Dai Paesi dell’Est alla Scandinavia, alla Danimarca, Regno Unito, Francia e Italia. In Germania entra in Parlamento con poco meno di cento rappresentanti, in Austria la destra estrema ha tre ministeri chiave, in Belgio è al potere da tre anni. L’autoritarismo si colora di suprematismo della razza, della religione cattolica, di xenofobia, di antisemitismo.
Che fare, dunque? Torna imperativo il richiamo al coraggio. Occorre fare nostro questo pensiero di A. de Toqueville: “Dobbiamo, dunque, avere dell’avvenire questo timore salutare che fa vigilare e combattere e non quella specie di terrore molle e inetto che abbatte i cuori e li indebolisce”. E contro la voglia di autoritarismo che cresce, va sposato quanto il giovanissimo De La Botie aveva scritto cinquecento anni fa: “Per non essere servi, basta non volerlo essere”. Questo significa tornare alla Costituzione, minacciata in quanto ingombro alla libertà di cambiare la forma dello Stato. E tornare a battersi per quell’Europa “libera e unita”, concepita nel 1941 dagli oppositori al fascismo confinati a Ventotene. Il loro Manifesto, sconosciuto ai più, andrebbe letto e studiato nelle scuole e nelle Università, e dovrebbe diventare il punto di riferimento dei programmi dei partiti democratici di tutto il continente.