La scomparsa di Franco Ferrarotti non può lasciare indifferenti. È un evento che scuote il mondo della cultura fin dalle fondamenta. Professore emerito della Sapienza Università di Roma, fu vincitore del primo concorso a cattedra in Sociologia, tenutosi in Italia nel 1960. Autore di numerosi saggi e pubblicazioni, ha ricevuto il premio alla carriera dall’Accademia Nazionale dei Lincei. Colpiva, quando lo si andava a trovare nel suo studio di corso Trieste a Roma, la scrivania sommersa di libri, e il suo sguardo lampeggiante aperto alla conversazione, smanioso di indagare, mai sazio di conoscenza. Le sue riflessioni, mai convenzionali, sempre penetranti, hanno un respiro ampio, che mette insieme culture e mondi diversi. Conosceva bene l’America, da lui continuamente visitata e indagata e conservava, come tesoro raro, l’esperienza fatta nel mondo dell’industria a fianco di Adriano Olivetti con il quale aveva condiviso un’etica profonda del lavoro e un rispetto puntuale della dimensione della “comunità” nel senso etimologico del termine, che riporta all’agorà greca, culla di democrazia. Era un convinto assertore del valore sociale dell’impresa, per questo lo faceva soffrire la “torsione” di un capitalismo ormai senz’anima, insensibile ai diritti dell’uomo, tramutandosi da motore di sviluppo a macchina generatrice di diseguaglianze. La conversazione che riportiamo si concentra sulla città, scossa dai drammi della contemporaneità. Quella città moderna che Franco Ferrarotti definiva “un’onda in movimento”, un mosaico, una serie di tessere che si affiancano, una “molteplicità urbana in divenire”, in cui le tecnologie e l’immigrazione sono i fattori “drammatici” di un cambiamento.
L’intervista che segue, curata da Massimiliano Cannata, è frutto della sintesi di diversi momenti di confronto avuti con lo studioso; una parte dei contenuti ha trovato spazio nella rivista di architettura e arti Anfione e Zeto (ed. Il Poligrafo) diretta da Margherita Petranzan, che si ringrazia per la collaborazione.
Professore, le città del terzo millennio sono dei grandi laboratori, attraversati da innovazione, arretratezza, discriminazioni, paure. Pur rimanendo dentro la definizione di Greimas che vede i contesti urbani quale “referente immaginario globale”, se si guarda all’esempio di Roma su cui da più di cinquant’anni si posa la sua attenzione, si scopre che i quartieri cosiddetti “cerniera” quali l’Esquilino, Piazza Vittorio, il Prenestino, dall’acquedotto Felice fino alla cintura dell’Alessandrino, la “barriera” contestata e per certi versi tutt’oggi invalicabile del Corviale, esprimono una “doppia globalità”, sono dentro un “diagramma arcipelagico”, che mette in relazione la totalità con le sue parti. L’attentato delle Torri Gemelle ha aperto lo scenario di una crisi di “civiltà”. Ulrich Beck ha fotografato con efficacia il segno dei tempi introducendo il concetto di “seconda modernità” e di “società del rischio”. Non le sembra che i tanti nodi di conflitto e di tensione che stanno attraversando le grandi aree metropolitane stiano facendo tornare di attualità l’intuizione dello studioso tedesco?
In alcuni casi, alcune presunte scoperte meriterebbero la tessera onoraria nel club dei “vati dell’ovvio”, non dico questo con cattiveria. La risonanza che Beck ha avuto in Italia credo che, da questo punto di vista, non sia completamente giustificata. Fermiamoci a riflettere su un punto cruciale: non vi è società che non sia del rischio, o per dirlo in tedesco del “risiko”. Basti pensare che all’epoca di Cicerone l’età media delle persone non superava i trent’anni. Anche se Socrate viene messo a morte a 76 anni e il filosofo Platone supera gli ottanta, si tratta di eccezioni che confermano quella che era un triste regola. Nella civiltà classica il rischio era una costante. Pensiamo al Medio Evo: gli storici della Scuola degli Annales, a cominciare da Le Goff, hanno frantumato tanti pregiudizi e stereotipi facendoci capire che quei “secoli bui” non costituirono una realtà granitica, coesa, stratificata ma, al contrario, furono attraversati da grandi sommovimenti e cambiamenti. A quell’epoca dobbiamo pensare che non esisteva l’anagrafe, non era quindi possibile stimare i decessi e le nascite.
Il rischio è una componente ineliminabile, dunque; non si può negare che esistono delle peculiarità che distinguono la società dell’informazione in cui siamo immersi. Possiamo individuarle?
Quello che caratterizza la contemporaneità è stato il venir meno di alcune regole che nel passato erano largamente condivise. È finita la “morale del villaggio” che si traduceva in un controllo sociale stringente. Questo ha fatto sì che i comportamenti che vengono oggi praticati non sono più prevedibili, perchè non rispondono a schemi preordinati. Questo vuol dire che il “rischio”, di cui parla Beck e altri sociologi, è ormai correlato in misura direttamente proporzionale alla mobilità delle persone e alla scarsa conoscenza che abbiamo del nostro vicino.
Il dibattito di sociologi, urbanisti, manager, architetti si sta concentrando sulla città, sulle prospettive del suo sviluppo, sulle politiche che bisognerà esperire perché il variegato tessuto multietnico e interreligioso che abita le nostre metropoli non diventi una polveriera, pronta ad esplodere. Da dove bisogna cominciare?
Quello della città e del suo sviluppo è un tema forte della modernità, perché impatta in presa diretta sul rapporto tra sicurezza e territorio. Per capire quali tensioni ci attraversano nella quotidianità, occorre tener conto di un duplice modello: vi sono le società tradizionali fondate sull’accettazione per cui essere emarginati anche topograficamente, o vivere nella banlieu o nelle favelas o nella barriada non è percepito come una sofferenza, perché l’ineguaglianza è accettata come un dato di natura. Ci sono poi i contesti, come quello dei Paesi cosiddetti occidentali, basati sulla competizione intellettuale, sul successo, sulla mobilità. In queste realtà chi non è ai primi posti finisce col deprimersi, si sente l’ultimo degli ultimi e non solo economicamente. Pensa di essere un non-cittadino, insomma un neo schiavo. Da questa matrice insorgono le tensioni e i conflitti in una società, come quella moderna che, lo ribadisco, oltre ad essere fondata sul movimento, ha anche i mezzi per esaltare la mobilità. Treni, aerei, strumenti di comunicazione elettronicamente assistita, sono ingredienti essenziali della nostra vita, con la conseguenza che non possiamo distinguere chi emigra e chi immigra, siamo su scala planetaria una società di migranti. L’omogeneità relativa della popolazione non può che essere messa costantemente in discussione da questa fluidità. Ed è questo un ulteriore fattore di crisi.
I fatti drammatici che hanno scosso negli ultimi anni l’opinione pubblica mondiale sono il prodotto imprevedibile e problematico di questa società di migranti?
Quello che è avvenuto, per esempio, in città come Parigi con i predatori delle banlieues è la manifestazione di una cultura “esclusiva” che tende ad emarginare il diverso. Una cultura che considera chi non parla il francese, come un “metech”, un essere inferiore. Non scordiamoci che il Ministro dell’Interno di allora aveva definito, a quell’epoca, “canaglia” i primi manifestanti, pensando che si trattasse di un movimento animato dai bassifondi, dalla “feccia” delle periferie. Il motivo della protesta francese era, invece, chiaro: vi era un piano sostenuto da Villepin che prevedeva l’assunzione a tempo determinato dei giovani che non avevano raggiunto i 25 anni. Alle aziende intanto veniva lasciata la libertà di licenziare come avviene già in America. Nell’idea del Governo francese, questo avrebbe dovuto incoraggiare gli imprenditori, mentre i protagonisti della protesta hanno vissuto tutto questo come l’anticamera di un precariato a vita. Il conflitto in questa situazione è inevitabile.
“L’incendio purifica, brucia, ma rende anche visibili”: così lei scrive in uno studio divenuto celebre sulla periferia romana: Roma da capitale a periferia. I disordini della Sorbona, l’emersione dei casseurs, le proteste degli indignados, gli omicidi nella Capitale, oltre a testimoniare una pericolosa lacerazione che divide centro e periferia, secondo alcuni osservatori, richiamano alla mente le “squadracce pasoliniane”. Il vecchio Continente lacerato oggi dalla guerra e dal susseguirsi di crisi ricorrenti sta andando verso un nuovo Sessantotto?
Non esistono punti di contatto con quella fase della storia. Quando si verificò la rivoluzione studentesca tutta l’economia europea e capitalistica stava attraversando una fase di eccezionale boom. Allora i contestatori agognavano l’immaginazione al potere. Adesso chiedono soltanto un posto fisso. Potrà apparire deprimente ma è la realtà. Allora si voleva un nuovo modo di costruire le automobili, adesso è già tanto che si continui a produrle. Le differenze in gioco sono dunque profonde e non vanno sottovalutate.
Tecnologie e immigrazione sono i principali fattori di trasformazione delle moderne periferie. Possiamo riassumere questa che è poi la tesi principale dei suoi ultimi lavori?
Da cinquant’anni osservo quell’onda in movimento che è la periferia romana. E posso dire che è avvenuto un fenomeno straordinario: la “cintura rossa” non esiste più. Non ci sono più gli operai dell’edilizia, quella “frangia dolente” di ottantamila anime è evaporata. Il sindacato si è fatto “soffiare” da sotto il naso la classe operaia senza accorgersene. Non è stata la Giunta comunale e neanche il potere divino a determinare questo profondo cambiamento. È arrivata la nuova tecnologia produttiva nella costruzione delle abitazioni. La classe si è così scompaginata, si è frantumata in una serie di gruppi specializzati di lavoratori. Il secondo grande fattore di spinta è venuto dalla nuova immigrazione. Fino agli anni Settanta le vecchie borgate romane erano abitate dalla gente del Sud che non aveva i mezzi per arrivare fino a Milano o Genova, eravamo di fronte al fenomeno della “città cerniera”. Oggi la periferia non è più fatta di “proletari intermittenti”, così definivamo i lavoratori che non erano inseriti in un’economia funzionante in maniera stabile e che perciò rischiavano continuamente di essere risucchiati nel sottoproletariato. Le aree più lontane dal centro come la borgata alessandrina sono diventate quartieri abitati dalla piccola e media borghesia.
Come si può rispondere efficacemente alla diffusa domanda di sicurezza e vivibilità che accomuna i cittadini del Nord e del Sud del mondo?
La tentazione degli specialisti è stata tradizionalmente quella di “rimodellare il ghetto”. Abbiamo periferie e quartieri dormitorio: proviamo a ridisegnarli. Un ragionamento a mio avviso erroneo oltre che inadeguato. L’architettura, l’urbanistica, l’ingegneria, la stessa sociologia, dovrebbero invece – ce lo hanno insegnato i grande a partire da Le Corbusier – essere impegnate in un lavorìo interpretativo del mondo materiale per afferrare e comprendere la mobilità sociale che caratterizza le città. Bisognerebbe, innanzi tutto, rivoluzionare il rapporto tra il centro e una periferia che non è scomparsa ma che semmai è divenuta funzionale, in senso necessario, al “cuore” stesso della città. Centro e periferia, città e campagna, non si contrappongono come una volta. Il momento urbano è destinato a riverberarsi, a rovesciarsi, ad estendersi anche nella periferia e nella campagna circostante per cui non abbiamo più la città contro la campagna, ma un continuum urbano-rurale che si sviluppa, uso un neologismo, in un processo di “rurbanizzazione”, che è la risultante del termine latino “rus” e della moderna urbanizzazione. Ho vissuto per molto tempo a Boston, scendevo a Rodail nel Connecticut, fino a New York e Baltimora accorgendomi che non c’erano più differenze. Lo stesso è avvenuto nelle nostre città di Torino e Milano, con la creazione della “cintura” torinese. La parola chiave, dunque, non sarà più distinzione e contrapposizione, ma simbiosi, sinergia. Non si tratta di “rimodellare”, ma di capire che la città di domani sarà costituita da un’area metropolitana policentrica, attraversata da grande mobilità. Le strategie della sicurezza non potranno ignorare il senso di questa evoluzione.
Città come Parigi, Roma, Londra, Madrid, Berlino stanno progettando soluzioni urbanistiche per affrontare l’emergenza della nuova immigrazione. Qual è la sua riflessione in merito?
Le aree urbane sono un polmone che si espande non solo in senso fisico e geografico, ma anche in relazione alla nascita di nuove e sempre più sofisticate esigenze e dei nuovi rischi che si affacciano, a cominciare dal terrorismo e dalle frizioni etnico-religiose. Dal punto di vista teorico e storico abbiamo due categorie di città: da una parte ci sono le città classiche, storicamente determinate, pensiamo a Troia con le sue mura, ad Atene. Sono città “monocentriche”. In Italia abbiamo l’esempio di Cortona, Orte, Volterra. Realtà che hanno un tessuto fitto, congegnato come un cristallo o un componimento poetico, nessuno può modificare una parola, un aggettivo, senza chiamare in causa tutto il senso, quindi la forma della città. C’è poi la città industriale, un’aggregazione urbana molto intensa, la cui struttura è stata determinata dalla prima fonte di energia, il vapore che, facilmente dissipabile, esigeva una struttura abitativa ad alta concentrazione. La massa, in questo ultimo modello, era forza, perché offriva la possibilità di alimentare la “macchina fordiana”, dando forma ad una città “agglutinante”, che si espande con sovrana indifferenza, aggiungendo quartiere a quartiere. Roma sfugge a questa tipizzazione: è una società antica ed eterna, ma non nasce come la città greca monocentrica. Affronta subito il problema dell’incremento demografico, così Romolo – almeno secondo quanto ci ha raccontato Tito Livio – inventa lo ius soli. Chi arriva a Roma si salva: il criminale, il fuggitivo; la Capitale esprime la sua vocazione cattolica universale, è una città che accetta tutti. Il suo centro storico è così vitale e aperto da rischiare il soffocamento. Questa natura duplice eterna e storica, ma anche commerciale e industriale è visibile in realtà come Pomezia, negli insediamenti della Tiburtina che sono un tratto distintivo della Capitale.
Riassumendo: alla luce della sua analisi, si può dire che per concepire un progetto di sicurezza valido a livello globale, bisognerà reimpostare la convivenza tra realtà policentriche, straordinariamente mobili e mutevoli. Un compito arduo per la politica, non le pare ?
Occorrerà governare senza soffocare, guidare senza dominare, per affrontare le grandi questioni legate alla convivenza multietnica. La globalizzazione ha degli effetti che vanno oltre le manifestazioni tradizionali delle frizioni o piuttosto delle inimicizie che sono sempre esistite tra gruppi e nazioni. Dobbiamo per la prima volta misurarci con un altro fatto sicuramente straordinario: la crisi dello Stato-Nazione. Questa invenzione del XVIII secolo che non regge più per una contraddizione strutturale che non può essere superata da politiche a corto raggio, basate sull’espediente. Lo Stato-Nazione è troppo grande per avere un rapporto vitale con le comunità di base. In quest’ottica si spiegano le insorgenze e le tante leghe separatiste. Nello stesso tempo, è troppo piccolo e debole per realizzare i grandi investimenti richiesti dall’odierna tecnologia produttiva. Siamo quindi di fronte ad una tendenza inarrestabile di concentrazioni, coalizioni, federazioni, confederazioni, che definirei le nuove Regioni del mondo, che guardano al di là dello Stato-Nazione. Nafta che riunisce Messico, Stati Uniti, Canada, nuove realtà nell’Oriente, nel Far West: Giappone, Taiwan, Cina, le unioni doganali per non parlare della stessa Unione europea che sta battendo la strada dell’allargamento, ma anche la difficoltà a trovare un comune indirizzo politico. E così è avvenuto che mentre gli Stati Uniti hanno spostato le loro attenzioni dall’Atlantico al Pacifico proiettandosi verso la Cina, l’Europa sta crescendo lasciando in un relativo isolamento la Russia post-staliniana. La storia non obbedisce alle nostre fisime, ai “fischietti” degli storicismi che vorrebbero guidarla. Così l’Africa scopre solo adesso il valore dell’indipendenza nazionale, di questo bisognerà tener conto quando si disegnano nuovi equilibri geopolitici fondati sull’apporto di regioni plurinazionali e multietniche. Ecco: più che verso una società del rischio, direi che stiamo andando verso una società planetaria, che si salverà dalla deflagrazione se riusciremo a creare i presupposti per un governo globale che al momento non c’è.
Dobbiamo, in conclusione, rassegnarci ad uno scontro tra le civiltà o esiste qualche spiraglio per il dialogo?
Huddinghton ha usato la celebre immagine un po’ ad effetto dello “scontro di civiltà”. Non è facile prevedere cosa può succedere quando insorge un contatto nudo, immediato, senza diaframmi tra gruppi etnici diversificati. Nonostante guerre e rumori di guerra, nonostante guerre calde e guerre guerreggiate, nonostante le ostilità che insorgono di fronte al diverso, credo che ormai avremmo dovuto capire che la diversità può essere ricchezza. Per questo, contrariamente a quanto sostengono Beck e Huddinghton, se volgo lo sguardo a lungo termine mi riscopro ottimista, i problemi che ci si pongono dinanzi e che abbiamo elencato sono terribili ma risolvibili. Il problema non è ipotizzare lo scontro, ma – come ho scritto nell’Enigma di Alessandro – costruire un nuovo “ellenismo”. Rifacendosi a quel mondo in cui vigeva una comprensione generalizzata, fondata su una lingua, la koinè greca. Oggi, potremmo servirci dell’inglese e in molte aree dello spagnolo; la lingua è, infatti, uno strumento troppo importante per lasciarla ai linguisti. Quando cerco una parola giusta per farmi capire, significa che sto tendendo una mano. Dobbiamo partire da qui, da questa visione e da questa disponibilità per superare gli steccati e per sconfiggere quelle paure che stanno annebbiando la mente dell’uomo contemporaneo.