Il successo televisivo delle “città segrete” di Corrado Augias e della serie che Alberto Angela ha recentemente dedicato al racconto delle metropoli antiche e moderne non deve stupirci. Il profilo delle civiltà da sempre si specchia nei modi in cui l’uomo di ogni tempo ha cercato di organizzare la sua convivenza. “Abitare la complessità, la sfida è sempre attuale”. La XV edizione di “DermArt” l’evento internazionale che si tiene a Roma, ideato da Massimo Papi, dermatologo e studioso delle fenomenologie del cambiamento, è entrato in questo orizzonte tematico con linguaggi e metodiche originali. La “pelle fa sentire e vedere”, si compie e si matura una conoscenza attraverso di essa, un passaggio cruciale, non un semplice transito perché il processo ha una natura gnoseologica molto precisa. La nostra epidermide è una “porta” imprescindibile della conoscenza. Sulla scia di queste riflessioni, nel gioco crescente della metafora, ci fa entrare dentro un’altra pelle, quella che ci avvolge da quando nasciamo, il luogo dell’origine e in molti casi della diaspora: la città, appunto, con i suoi punti di attrazione e le sue contraddizioni.
La città come seconda pelle che ci avvolge dalla nascita, con i suoi punti di attrazione e le sue contraddizioni
La street art produce simboli sulla città. I luoghi: piazze, muri, palazzi sono il canale della comunicazione attraversato dal segno, che materializza icone, nuclei di senso e di significato che modificano la nostra percezione del reale. Franco Purini nel suo Discorso sull’architettura ci mette in guardia contro la possibile “aggressione del segno”: «La street art – scrive – considera l’architettura, anche qualche monumento come un supporto, qualcosa che non è l’esito di un linguaggio complesso, denso dei valori dell’abitare delle memorie che esso conserva». L’allarme espresso da una fonte certo autorevole deve essere inteso come la necessità di ridare un respiro etico agli interventi sulla città, che deve essere giocato su un rapporto positivo di tempo e memoria, tradizione e innovazione.
Alla ricerca della definizione di città oggi: aspirazione, sogno o inferno
Che cosa è la città oggi; difficile dare una definizione univoca: un’aspirazione, un sogno per tanti, pensiamo al miraggio della città negli anni dell’immediato dopoguerra e del miracolo economico. Un inferno per alcuni, generato dalla ghettizzazione della città industriale, legata alla nascita della società delle classi fortemente sperequata e lacerata da gravi diseguaglianze. Un territorio “invisibile” come nella visione di Calvino che anticipa e fotografa le contraddizioni della civiltà industriale e le conseguenze del difficile rapporto tra uomo e macchina, che segna oggi la contemporaneità, sulla spinta dell’impetuoso progresso dell’IA. Un passaggio obbligato per chi vuole inseguire le aspirazioni professionali spesso non realizzabili nei luoghi di origine, come sanno bene generazione di donne e uomini, migranti figli della diaspora di oggi, di ieri, di sempre. Un approdo nella società densa, scandita da flussi crescenti di donne e uomini in cerca di futuro. Luogo che accoglie l’agorà, orizzonte politico che rende possibile (pensiamo alla polis greca) l’esercizio degli strumenti democratici. È questa la città “polifonica” come la definisce Massimo Canevacci in un suo celebre saggio dedicato all’antropologia della comunicazione urbana, che mette insieme – come ha scritto il grande storico della letteratura Alberto Asor Rosa – il “materiale e l’immaginario”.
Stiamo dentro le città come avvolti, spesso le subiamo, a volte riusciamo ad emergere
Aspetto non secondario la sede del convegno: il Campidoglio, superficie riflettente dell’ampia riflessione sui mutamenti del tessuto urbano. Nel cuore dell’Urbe, situato in un’area archeologica straordinariamente ricca di insegne di governo e di potere, espressione dell’Impero Universale di Roma e della prima globalizzazione sperimentata dall’umanità, si può cogliere la fragile condizione della democrazia nell’era della complessità, in cui viviamo immersi. La tradizionale lettura urbanistica della città, ha assunto inedite valenze nel corso del dibattito, chiamando in causa l’orizzonte del progetto, architettonico come strumento per “proiettarsi oltre”, richiamando – come scrive Margherita Petranzan in Costruzioni (ed. Il Poligrafo) – l’architetto alla responsabilità di presidiare un campo di battaglia che è materiale e spirituale, etico e professionale. Farsi interpreti dei bisogni della comunità amministrata, la sfida sottesa al cambiamento della “pelle delle città”. Costruire luoghi dell’abitare al servizio dell’uomo, è il tema centrale che attiene alla governance politica delle città, che le classi dirigenti di oggi e di domani non potranno ignorare. Vi è poi una lettura esistenziale del fenomeno urbano, quella che attraversa le nostre vite, stiamo dentro le città come avvolti, spesso le subiamo, a volte riusciamo ad emergere e a individuare percorsi di senso e di crescita ricercando un’etica della convivenza, obiettivo sempre difficile da raggiungere.
Il destino delle identità nella società complessa
L’altro è la circostanza che ci chiama all’essere, il pensatore francese Alain Badieu ce lo ricorda perché questa è la scommessa, la componente che siamo chiamati a governare per non soccombere. La città è il caleidoscopio che accelera processi di incontro/scontro che vanno compresi, perché l’alterità è un fattore costitutivo delle aree urbane, sarebbe vano negarla o peggio ancora conculcarla. Negli ultimi tempi si è tentato più volte di celebrare il De Profundis della città. Esercizio errato perché sono le realtà urbane l’epicentro della “comunità di destino”, teorizzata in molti scritti di Morin. Secondo stime del “World Urbanization Prospects” nel 2050 quasi il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane, autentici “magneti umani”, con una crescita pari a circa 250mila abitanti al giorno. Parliamo di un polmone in espansione che bisognerà osservare, gestire, soprattutto curare.
Secondo stime del World Urbanization Prospects nel 2050 quasi il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane
Franco Ferrarotti, sociologo romano, ci offre una veduta interessante della città. «Le aree urbane moderne – scrive il sociologo che per più di mezzo secolo ha studiato l’onda in movimento della periferia romana – sono un mosaico, una serie di tessere che si affiancano. Si stanno, infatti, progressivamente modificando i tradizionali rapporti gerarchici tra centro e periferie, tra le “insegne” del potere, le agenzie di senso e gli organi istituzionali». Il salto di paradigma raccontato dal sociologo ci ha posto di fronte alla necessità di praticare una “Rigenerazione urbana”, quale efficace pratica contro il disfacimento. Il termine sempre più ricorrente, ha una valenza complessa, perché implica la consapevolezza che superficiali maquillages sarebbero inutili, intervenire nelle realtà urbane vuol dire toccare la struttura profonda su cui si fondano i princìpi della “communitas”. Appare urgente in questa ottica il bilanciamento del rapporto tra segno e significato, serve insomma un nuovo linguaggio per interpretare la “babele cittadina delle città reticolari di oggi” quale strumento per agire con raziocinio nel contesto di quelle che Vittorio Gregotti aveva definito “tecno-città”, tipologia urbana destinata a divenire prevalente nelle dinamiche evolutive attuali.
L’urbanità nella dinamica dei non luoghi e il “diritto alla città”
L’interesse appare oggi catalizzato dalla idea di Urbanità, nuova area disciplinare che intende sottolineare la riemersione dell’“umanesimo” dentro la tumultuosa escalation delle “protesi” e delle “infrastrutture” digitali e immateriali che stanno modificando lo spazio di relazione insieme alla dimensione dell’abitare. Carlo Ratti (Urbanità l’ultimo suo saggio, ed. Einaudi), insiste su questa nuova dimensione; nel suo laboratorio presso il Mit di Boston è allo studio la fittissima trama di implicazioni che legano la scienza urbanistica, la rivoluzione del digitale e il fare architettura. Avevamo creduto, sulla scorta dell’insegnamento di Marc Augé, che i “non-luoghi” nella globalizzazione potessero prendere il sopravvento. Ci stiamo invece accorgendo che i bit non hanno cancellato la distanza, e che i luoghi riemergono, per riaffermare una specificità. Nell’era dell’antropocene la polis connette reti di senso, prima ancora di garantire mobilità tra aree metropolitane, tra centro e periferie. Una cosa è certa: mentre oscilliamo costantemente sballottati tra l’oblìo e l’utopia, la riemersione di uno spazio pubblico partecipato, da più parti auspicata, dovrà essere orientata ad affermare quello che Henri Lefebvre e, più di recente, Giovanni Maria Flick chiamano “diritto alla città”, che vorremo venisse ottemperato nel disegno di un “universale urbano” finalmente aperto al libero attraversamento di popoli, razze, etnie.