La Germania cerca un nuovo corso dopo l’era Merkel

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Sono state le elezioni della “prima volta”. Per la prima volta, nella storia della Germania federale, le urne hanno consegnato al Paese un voto frammentato, tale da rendere obbligata la formazione di un governo composto non da due, ma da tre forze politiche. Per la prima volta un partito uscito vincitore dalle elezioni non riesce ad ottenere il 31% dei voti. Per la prima volta i due partiti che hanno retto il paese per trent’anni – la Cdu e la Spd – non hanno insieme il 50% del consenso nel paese. A due settimane dal voto del 26 settembre non è semplice tracciare un bilancio. Le elezioni che chiudono l’era di Angela Merkel incoronano Olaf Scholz, Ministro delle Finanze, candidato della Spd, come vero vincitore. I numeri – la Spd ha ottenuto il 25,8% contro il 24,1% della Cdu – sembrano indicare una vittoria risicata, e tale è stata. Ma il successo di Scholz, candidato non senza resistenze dalla dirigenza del partito e protagonista di una rimonta elettorale da manuale, ne fa l’erede naturale della legacy politica di Merkel.

Il primo sconfitto: lo status quo

Della schiera opposta fa parte Armin Laschet, il segretario della Cdu pronto a dimettersi dopo un tracollo elettorale e una campagna macchiata da gaffe e imbarazzi. Per il blocco Cdu-Csu è il peggior risultato mai incassato alle urne. Anche qui i numeri possono ingannare: nei due punti risicati che separano i democristiani dai socialdemocratici è racchiusa una débâcle politica. Due esempi bastano a dare un’idea: il sorpasso della Spd a Berlino e nel collegio elettorale di Rügen. Qui, nel Land del Meclemburgo-Pomerania Anteriore, Merkel aveva vinto otto volte consecutive dal 1990. Sconfitta è anche la sinistra estrema della Linke. Solo la vittoria in tre collegi uninominali permette al partito di entrare al Bundestag nonostante il magro risultato al di sotto della soglia minima (4,9%). Sospesi in un limbo, a metà fra successo e delusione, rimangono gli altri tre partiti in doppia cifra. I Verdi, nonostante il risultato record (14,4%), escono ridimensionati nel panorama politico tedesco. Una campagna elettorale segnata da non pochi passi falsi ha costretto la leader e candidata, Annalena Baerbock, a rivedere il sogno per la cancelleria. Il risultato però fa dei Grünen, insieme ai Liberali della Fdp guidati da Christian Lindner (11,5%), il vero ago della bilancia delle consultazioni per il governo aperte a Berlino. Non sfonda l’ultradestra di Afd, ferma all’11,6% dei voti, un punto sotto quel 12,6% che quattro anni fa ne ha fatto il terzo partito nazionale. E tuttavia di sconfitta non si può parlare: dissidi interni e inchieste giudiziarie non hanno impedito all’Afd di reggere l’urto e mantenere uno zoccolo duro nel paese, specialmente nei Land orientali. Il vero sconfitto del voto tedesco, però, è lo status quo. Con l’uscita di scena di Merkel tramonta la stagione della “Gross-Koalition” e si apre un periodo di consultazioni che si preannuncia lungo e dall’esito incerto. Nel frattempo dovrà continuare la supplenza della Cancelliera – ormai prossima a superare il record di Konrad Adenauer ed Helmuth Kohl al governo – con il rischio, tutt’altro che remoto, di aprire un vuoto di potere e una fase di instabilità non solo a Berlino, ma anche a Bruxelles.

La ricetta (poco) segreta di Scholz

Due anni fa, nel giugno del 2019, Olaf Scholz subiva un’umiliante sconfitta nella corsa alla segreteria della Spd, battuto da due anonimi leader della sinistra del partito, Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken. Oggi il Ministro delle Finanze di Merkel sorride. Sa che, salvo imprevisti, sarà il prossimo cancelliere e accoglie con calma serafica la processione di politici pronti a entrare nel governo, il suo. Come spiegare una così improbabile parabola politica? Come ha fatto un partito fino all’estate inchiodato dai sondaggi al 15% a svettare alle urne? Una risposta eloquente si trova nella copertina di agosto del Süddeutsche Zeitung. Al centro campeggia Scholz: il volto disteso in un sorriso, le mani congiunte a formare un rombo. Non un rombo qualsiasi: è il “rombo Merkel”, il gesto che per trent’anni ha accompagnato la Cancelliera nelle sue uscite pubbliche, un segno di “normalità” per i tedeschi che la normalità, oggi, anelano, dopo un anno e mezzo di pandemia. Qui risiede il cuore dell’intuizione politica di Scholz. C’è solo un modo per prendere il posto della “Kanzlerin”: imitarla. In un’intervista al Financial Times di giugno, il candidato socialdemocratico aveva svelato le carte: le elezioni di settembre non si sarebbero giocate tanto sulle proposte politiche presentate, quanto «sulla persona che vogliamo veder governare il paese». Questa personalizzazione della sfida elettorale ha pervaso l’intera campagna di Scholz. Da una parte con un ricorso sistematico all’immagine del leader, proiettata in primo piano su volantini, manifesti, schermi. Dall’altra con il richiamo metodico e quasi sfacciato all’eredità della Cancelliera, il ricorso ad uno stile comunicativo sobrio, pragmatico. Affidabilità e popolarità sono stati i due fattori vincenti dell’equazione Merkel. Scholz li ha saputi adottare, al punto da far proprio uno slogan elettorale usato dalla leader della Cdu nella campagna del 2013: “Voi mi conoscete”. Sembrano lontani i tempi di “Scholzomat”, il nomignolo affibbiato a Scholz quando, allora Segretario generale della Spd, difendeva a spada tratta – con voce “robotica” e in retto tono – anche le politiche più impopolari di Gerhard Schröder. Quella che un tempo poteva sembrare apatia oggi può diventare sicurezza. Un’arma vincente.

Sconfitti, ma decisivi: le carte di Verdi e Liberali

Fin dal momento dello spoglio è apparso evidente come delle due strade per il governo ipotizzate alla vigilia – un’alleanza di Verdi e Liberali con la Cdu (“Coalizione Giamaica”) o con la Spd (“Coalizione Semaforo”) – una sola sia quella percorribile. La politica è certo un’arte imprevedibile, e però oggi tutti i segnali indicano la possibilità di dar vita a un’alleanza progressista che confini all’opposizione il blocco conservatore di Cdu-Csu. La via per il “Semaforo” resta nondimeno lastricata di ostacoli. Molto dipenderà dalla capacità di compromesso dei due kingmaker, Verdi e Liberali, e dalla buona riuscita della mediazione di Scholz. I colloqui a Berlino sono iniziati nel più assoluto riserbo. Non un solo comunicato fa breccia fra le consultazioni in corso, a dimostrazione del filo sottile su cui si cammina. Fra i partiti di Baerbock e Lindner non mancano certo sintonie. Su alcuni fronti, come le libertà e i diritti civili, la sovrapposizione è quasi completa. È il caso della promozione della gender equality e della legalizzazione della cannabis, o ancora del voto ai sedicenni. Anche sulla politica estera e di sicurezza i rispettivi programmi, a tratti, combaciano. Rimangono ciononostante distanze difficili da colmare. Per dirla con Robert Habeck, co-leader e fondatore dei Verdi, “due mondi stanno collidendo”. È sull’economia che si costruirà la parte più difficile delle trattative.

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Sullo sfondo ci sono due visioni assai poco conciliabili dello Stato: i Verdi ne vogliono di più per dare copertura alle politiche green al centro del programma, i Liberali ne vogliono di meno. I contatti preliminari (Vorsondierungen) hanno fotografato l’ampiezza del solco fra le parti. Sarà difficile trovare un’intesa sulle tasse – i Verdi vogliono aumentare quelle sui redditi alti e la patrimoniale, l’Fdp ha promesso di tagliarle – sarà ancora più difficile sciogliere il nodo più intricato, quello che circonda le politiche di bilancio. Qui, sul possibile ritorno dell’austerity, si decide la buona riuscita dell’operazione Semaforo. A differenza dei Verdi, che in campagna elettorale hanno tuonato contro il fronte rigorista in Europa, i Liberali di Lindner tifano per un ritorno allo status quo pre-pandemia e a un’applicazione rigida della “Schwarze null”, la “regola dello zero” incastonata nella Costituzione: in “condizioni normali” il deficit non deve superare lo 0,35% del Pil. Una soluzione possibile e al tempo stesso molto contestata – proposta da uno studio dell’istituto Bruegel preparato per la riunione del Consiglio Ecofin del 10-11 settembre – prevede lo scorporo degli investimenti verdi dal conto del deficit, una sorta di “golden rule” riservata per la spesa ecologica.

Ma la partita è anzitutto politica. Lindner, da parte sua, non fa mistero di puntare al ministero più ambito, quello delle Finanze. È un posto chiave che garantirebbe al partito un peso specifico nella coalizione, evitando di ripetere l’errore commesso ai tempi del governo con Spd e Cdu tra 2009 e 2013, quando l’Fdp rimase “schiacciata” nella Gross-Koalition registrando un calo record di consensi alle successive elezioni politiche. I Liberali ora “devono” governare, ha chiosato di recente l’ex vice cancelliere della Spd Sigmal Gabriel. Al tempo stesso l’esito dei negoziati a Berlino avrà, inevitabilmente, ripercussioni sul nuovo corso della politica economica a Bruxelles. Il superamento del Patto di stabilità durante la pandemia – ottenuto grazie al decisivo benestare della Merkel – non può durare in eterno, tuonano oggi i Liberali. 

Che cosa cambia per l’Italia?

La nebbia che ancora si addensa sulla politica a Berlino rende difficile capire quale sarà l’impatto sull’Italia del vuoto lasciato da Merkel a Berlino. Trarre una “lezione” politica dal risultato elettorale è un esercizio faticoso e forse anche inutile. Di tendenza si può parlare, semmai, sul piano europeo. Il voto di settembre incammina lo Stato, da sempre baluardo di stabilità in Europa, su una via battuta da tempo da altri Paesi dell’Europa centro-meridionale, Italia inclusa. Un sistema politico frammentato, un governo costruito sull’equilibrio fragile fra partiti e interessi (molto) diversi. La crisi della Cdu-Csu trova di certo riscontro nella più ampia crisi del popolarismo europeo, schiacciato fra una corrente che guarda con simpatia all’esperienza sovranista – è il caso del cancelliere austriaco dimissionario Sebastian Kurz – e un’altra che spinge la famiglia popolare su posizioni più liberali e progressiste. Il risultato dei Verdi tedeschi – sconfitti eppure decisivi – segnala l’apertura di uno spazio politico per le politiche ambientaliste non più confinato alla cifra singola e che, tuttavia, fatica ancora a diventare maggioritario. La tenuta di Afd, infine, testimonia l’esistenza di un “nocciolo duro” della destra sovranista europea che rimane ai margini della vita politica (a Berlino come a Bruxelles) e tuttavia ha radici resistenti. 

Draghi e l’eredità della Merkel in Europa

Sul piano internazionale, è stato detto che la transizione di potere tedesca apre una finestra di opportunità per l’Italia di Mario Draghi. Retorica a parte, è innegabile che il Premier italiano goda di un riconoscimento bipartisan in Europa forgiato negli anni della presidenza della Banca Centrale Europea. La stessa Merkel, durante la sua ultima visita a Roma, ha riconosciuto a Draghi il titolo di “garante dell’euro” in una cerimonia di congedo che a molti osservatori è sembrata un passaggio di testimone. Il nuovo protagonismo del Governo sullo scenario europeo ha trovato un primo banco di prova nel G20 straordinario sull’Afghanistan convocato a Roma sotto la Presidenza italiana. Nei mesi a venire non mancheranno occasioni per ribadire il contributo decisivo dell’Italia ai tanti tavoli multilaterali europei, dal Consiglio per la Tecnologia e il Commercio con gli Stati Uniti al rinnovo dell’accordo di libero scambio fra Ue e Australia fino alle discussioni per un primo nucleo di una Difesa comune europea. Al tempo stesso, una transizione troppo prolungata a Berlino può rivelarsi controproducente anche per l’Italia, alla vigilia della fase implementativa del Next generation Eu. Su questo fronte la prospettiva di un governo tedesco guidato da Scholz potrebbe non essere una cattiva notizia per Roma. Non solo, infatti, il candidato della Spd vanta ottimi rapporti personali con Draghi, ma da Ministro delle Finanze tedesche è stato anche fra i più convinti promotori dei fondi per la ripresa europea, di cui l’Italia incasserà la fetta più consistente (209 miliardi di euro).

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