«Vai all’Aquila e raccontami questi dieci anni dopo il terremoto». Detto fatto, ed in un attimo in testa ti tornano tutte le emozioni di quella notte. Le persiane che si muovono, il rumore che ti fa pensare che i ladri abbiano deciso di forzare la tua casa. Sei a Roma, 113 chilometri dalla casa a due passi dalla Villa Comunale. Ti attacchi al telefono, stanno bene i tuoi genitori anche se il fiatone tradisce la paura di quei momenti. Ci eravamo sentiti poco prima di mezzanotte, per un’altra scossa.
«Tutto bene», dici. «Tutto a posto» ti senti rispondere. Perché, in fondo, la paura la esorcizzi con i luoghi comuni, quelli che ti fanno credere che una scossa libera l’energia e le successive saranno sicuramente meno intense. Quella notte non è andata così. 309 morti, 80mila sfollati, 1.600 feriti. Sono questi i numeri del dolore, le storie di una spoonriver sotto il Gran Sasso.
Dieci anni dopo, quella notte è presente come non mai. L’Aquila è cambiata ma nella testa il 6 aprile del 2009 è ancora saldamente presente. Per questo, quando ti chiedono di provare a spiegare “L’Aquila 10 anni dopo”, i sentimenti sono contrastanti. Da un lato, credi di non aver detto tutto di quello che hai provato, dall’altra, pensi che ti sia sfuggito qualcosa della città che dal 1300 a oggi ha sempre tremato ma è sempre rimasta lì. Nel 1300 il Conte Lallo Camponeschi, dopo un altro terremoto devastante, convinse gli aquilani a rimanere per ricostruire. Nel 1703 ci pensò Garofalo, inviato del Viceré a mettere le palizzate alla porta della città per impedire la fuga. E stavolta la fuga non c’è stata. Guardando i registri, la popolazione è a saldo zero nel confronto tra dieci anni fa e oggi. Merito, forse, della decisione di aver riportato tutti gli studenti all’Aquila già nel 2009. Quella fuga improvvisata nelle prime ore dopo le scosse si è trasformata in una migrazione di ritorno, quando a settembre le campanelle delle scuole tornato a suonare.
È stato il pretesto per tornare e restare legati alla città. Oggi, dieci anni dopo, la ricostruzione privata è vicina al 70 per cento. Più indietro quella pubblica, con l’effetto di trasformare la città in una Legoland dell’anno 2020. Città bellissima, palazzi ritrovati e recuperati, con il lavoro della Sovrintendenza che ha permesso di recuperare particolari che nessuno ricordava. Il barocco all’Aquila? E quando mai? Poi entri a San Filippo e scopri quello che non ti aspetti. Stesso discorso per il Teatro comunale o per Palazzo Ardinghelli, prossima sede del Maxxi. C’è San Bernardino, Collemaggio e, a due passi, anche l’istallazione di un’archistar come Beverly Pepper che regala al Parco del Sole un teatro all’aperto che dialoga con i marmi bianchi e rosa della vicina basilica. Tutto bene, tutto bellissimo. Ma per chi? In centro la città è vuota. Ci ha provato l’Università a riaprire il rettorato a Palazzo Camponeschi, il Comune a Palazzo Fibbioni e il Gran Sasso Science Institute che alla Villa Comunale fa respirare all’Aquila l’aria di Princeton con le sue ricerche sulle onde gravitazionali. Ma poi?
È ancora poco, al netto dei caffè e di qualche negoziante. L’Aquila oggi è popolata di operai che costruiscono la loro Legoland. Non si capiscono le scelte di delocalizzare certe attività economiche o culturali. Le scuole restano nei moduli prefabbricati ora al limite dell’agibilità e un piano per l’edilizia scolastica è ancora bloccato dai ricorsi e dalle carte bollate. In fondo la scelta è qui. Tornare in centro per dare nuovo sangue alla città.
Paolo Pacitti, giornalista aquilano, Rai News 24, autore di uno speciale tv che andrà in onda alle ore 4,15 della notte del 6 aprile, in occasione del decennale del sisma del L’Aquila.