L’emergenza sanitaria ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta per la diffusione dello smart working in Italia. È innegabile che il nostro Paese sia stato colto impreparato e si sia trovato ad affrontare i limiti di un’arretratezza non solo in termini di mentalità – per cui la produttività del dipendente è calcolata solo in base alle ore che fisicamente passa in ufficio –, ma anche in termini di scarso livello di alfabetizzazione digitale. Eppure, il lavoro “smart” (letteralmente “intelligente”), definito come quella modalità di lavoro dipendente che non presenta vincoli di orario o di luogo, era stato riconosciuto in Italia già nel 2017, con la legge n.81/2017. In quello stesso anno, secondo i dati registrati da Eurostat, la percentuale di lavoratori occupati tra i 15 e i 64 anni che solitamente non lavoravano in ufficio ma utilizzavano la casa o altre postazioni era, in media, pari al 5%. La percentuale più alta si registrava nei Paesi Bassi (13,7%), seguiti da Lussemburgo (12,7%) e Finlandia (12,3%). L’Italia si attestava ben al di sotto della media, con un 3,5%, percentuale che è rimasta pressoché invariata (3,6%) nel 2018 e nel 2019 – il nostro Paese si posiziona nella parte bassa della classifica europea.
Dipendenti che lavorano da casa in percentuale dell’occupazione totale, per sesso, età e stato professionale
Fonte: Elaborazione Eurispes su dati Eurostat
Secondo le ricerche effettuate dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2018 il numero di lavoratori “agili” in Italia ha raggiunto la quota di 480mila, vale a dire il 12,6% del totale degli occupati che potrebbero lavorare in smart working. Il lavoro da casa era diffuso maggiormente fra gli uomini (76%) residenti nel Nord-Ovest del Paese (48%), di età compresa fra i 38 e i 58 anni (50%). Degli intervistati, il 38% si dichiarava completamente soddisfatto di questa modalità di lavoro, e per il 46% uno dei principali vantaggi era rappresentato dalla possibilità di evitare lo stress derivato dallo spostamento casa-ufficio, portando ad un vero e proprio miglioramento della sfera personale. Il 43%, inoltre, vedeva nel lavoro da casa una fonte di benessere, capace di migliorare l’equilibrio tra vita privata e professionale. Non ultima la volontà di limitare l’impatto ambientale, evitando l’utilizzo dei mezzi di trasporto per il tragitto casa-ufficio: tale proposito vedeva coinvolti il 33% degli intervistati. L’anno seguente, nel 2019, prima che l’emergenza sanitaria cambiasse radicalmente il nostro modo di vivere e di lavorare, gli smart worker erano arrivati a circa 570mila. Erano soprattutto le grandi aziende, tecnologicamente avanzate e preparate al cambiamento, ad applicare in maniera considerevole questa modalità lavorativa (58%), mentre solo il 16% dei lavoratori della Pubblica amministrazione ne era effettivamente interessato (Dati Osservatorio Politecnico di Milano).
Ma com’è la situazione attuale? Nel 2020, con il periodo di chiusura forzata del nostro Paese, si è arrivati a ben 8 milioni di lavoratori coinvolti, adottando il lavoro da casa come unica soluzione possibile, in grado di conciliare i limiti imposti dall’emergenza sanitaria con la necessità di garantire una continuità produttiva. Rispetto ai dati degli anni precedenti si nota immediatamente come la crescita del fenomeno sia stata, per forza di cose, rapidissima ed esponenziale. «In Italia – osserva Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano – siamo passati da un potenziale di 5 milioni di lavoratori a oltre 8». Inizialmente, più di qualcuno ha pagato il prezzo di una scarsa alfabetizzazione digitale, o la mancanza di una banda larga o ultra larga, o ancora l’assenza di una adeguata strumentazione personale.
Fin dai primi giorni di lockdown ci si è resi conto che questa forma di lavoro digitale non corrispondeva all’esatta definizione di smart working, in quanto aveva ben poco di “intelligente” presentando, fin da subito, luci ed ombre. Se, come si è detto, ha fatto bene all’ambiente – con una drastica riduzione dell’inquinamento –, alla salute delle persone, e alla vita privata – garantendo maggiori spazi in famiglia –, dall’altro lato ha comportato una serie di effetti negativi per l’economia: interi quartieri si sono svuotati, con ripercussioni sul mercato immobiliare e sul commercio; il numero dei pasti fuori casa in pausa pranzo si è annullato; si è registrato un incremento considerevole degli acquisti on line, per comodità, ma anche per paura.
Lo smart working è stato possibile per i dipendenti del settore finanziario, assicurativo, delle informazioni e delle comunicazioni, della Pubblica amministrazione e dei servizi professionali. Sono restati completamente fermi, invece, settori come quello del commercio o della ristorazione, parzialmente quello manifatturiero: quelli che comportavano i rischi maggiori per la salute dei lavoratori. Ma al di là delle ripercussioni economiche, lo smart working è piaciuto agli italiani che lo hanno sperimentato, come dimostrano i dati forniti dalla Luiss Business School (Casadei, C., Testi di massa per passare da lavoro remoto a smart, Il Sole-24Ore, 16 luglio 2020)
La ricerca è stata condotta su un campione di riferimento di 450 lavoratori con un’età media di 36 anni. Il 66% degli intervistati è riuscito a svolgere tutte le attività da remoto (senza incontrare particolari problemi); il 74% si dice disposto a proseguire questa esperienza di “lavoro intelligente”, potendo lavorare da casa più giorni a settimana (anche consecutivi). Il 69% del campione ritiene, inoltre, che lo smart working possa avere un ruolo importante nel rafforzamento delle pari opportunità.
Tornare alla normalità, quindi, non è facile e spesso neanche desiderato, visto che più della metà degli intervistati vorrebbe far diventare il lavoro da remoto una vera e propria abitudine. Come dimostrato da studi e sondaggi, il gradimento sembra essere legato, soprattutto in questo momento di emergenza sanitaria, alla volontà di preservare la propria salute, evitando spostamenti su mezzi pubblici o potenziali contagi in ufficio. Il Coronavirus si è tradotto in una repentina possibilità di innovazione, costringendo tutti i settori ad utilizzare, o sviluppare da zero, forme di lavoro agile. Come si è visto, rispetto agli altri paesi europei l’Italia è ancora indietro, ma la pandemia potrebbe rappresentare, veramente, il punto di svolta. Considerati i pro e i contro dello smart working, la soluzione migliore, da elaborare in un futuro non molto lontano – quello della seconda ondata di Covid? – potrebbe consistere in una forma di lavoro “ibrido”, capace di conciliare l’home working – perché in realtà di questo si tratta – con il lavoro in presenza. Una forma di lavoro in grado, soprattutto, di superare quei limiti culturali che misurano la produttività del dipendente solamente in termini di orario. Una cosa è certa: sono stati compiuti notevoli progressi in questo àmbito, siamo disposti a tornare al lavoro di prima?