Potere e responsabilità: la figura del magistrato nel saggio di Luigi Balestra

potere e responsabilità

Potere e responsabilità: vediamo Filinte e l’integerrimo Alceste, l’impetuoso e irriverente Trasimaco. Così Luigi Balestra, professore di Diritto civile, già vicepresidente della Corte dei Conti, traccia la figura del magistrato, in un efficace pamphlet di recente pubblicazione per Rubbettino Editore. Potere e responsabilità: la figura del magistrato di Luigi Balestra mira al cuore della Giustizia, contro l’autoreferenzialità, si interroga sui temi di reclutamento e i percorsi di formazione di donne e uomini a cui viene “confidata”. «Si sarà in presenza di una produzione normativa sostanzialmente autoreferenziale ogniqualvolta essa disveli un’incapacità di impattare virtuosamente sulla realtà sociale anche ai fini della maturazione di rapporti più equi, divenendo un ostacolo per la tutela delle fragilità». La preoccupazione per questo stato di cose non si consuma soltanto sul piano interno. L’Unione europea ha rivolto pressanti raccomandazioni in vista della messa in cantiere di un’opera riformatrice. La sollecitazione è divenuta massima in occasione del grande afflusso di risorse che si sta profilando per effetto del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. L’intervento sulla giustizia, insieme a quello in tema di pubblica amministrazione, è così assurto al rango di riforma orizzontale o di contesto. Il che equivale a sostenere che si tratta di ristrutturazione di un “comparto” d’interesse trasversale in relazione a tutte le missioni del piano, in vista della realizzazione dei primari obiettivi di competitività, di efficienza e di equità del Sistema Paese. Se non si ha consapevolezza dell’assoluta sproporzione tra le pressanti esigenze di giustizia e le umane possibilità di realizzarla – annota l’autore – il rischio è di dare origine, anche a cagione dello spirito intransigente che sovente ne permea l’anelata ricerca, a nuove ingiustizie. Si finisce così col rimanere vittima di un guazzabuglio semantico, in un’illusione (verbale).

C’è un’assoluta sproporzione tra le pressanti esigenze di giustizia e le umane possibilità di realizzarla

Anche nelle riflessioni comuni, d’altro canto, chiunque è in grado agevolmente di interloquire sull’ingiustizia, mentre si fa fatica, e non da oggi, a far luce sull’oscurità in cui è avvolta l’idea di giustizia. Si è fatta così strada, con modalità costanti, una dicotomia, non facilmente superabile, tra l’idealizzazione della nobile funzione che alla giustizia sottostà e il senso di frustrazione che in non poche occasioni si sprigiona all’esito della decisione e riguardo alla gestione complessiva delle vicende giudiziarie. Sistema che disvela lentezza, inettitudine e, in casi non episodici, marciume. Selezione inadeguata, pervicace sistema correntizio, ambizioni e protagonismi coltivati anche attraverso una giustizia mediatica e esorbitanti tendenze moralizzatrici, sono alcune delle deviazioni evocate. Se tutto questo lo si combina con l’ipertrofia legislativa, a cui si accompagna una litigiosità esasperata, (figlia della perdita di fiducia e dell’acuirsi dei conflitti sul piano sociale), capace di ingolfare l’organizzazione giudiziaria condannandola a un’inesorabile inefficienza, ne esce un quadro sconfortante tanto più se appare difficilmente redimibile.

Dicotomia tra l’idealizzazione della nobile funzione della giustizia e il senso di frustrazione per la gestione complessiva delle vicende giudiziarie

Sarebbe bene tenere sempre a mente quanto affermava Cesare Beccaria esordendo nel suo celebre scritto: «le leggi sono le condizioni, con le quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità». Le istanze di protezione provenienti dal basso, riguardano proprio quella sicurezza e quella tranquillità che gli individui hanno negoziato con il contratto sociale, in cambio – un approccio giusnaturalistico – dell’abdicazione del regime di assolutezza dei propri diritti naturali. «Allorquando dette istanze vengano frustrate, si finisce con l’assistere a un plateale e – tenuto conto del soggetto obbligato – inaccettabile inadempimento contrattuale». La giustizia – anche a sganciarla da qualsivoglia connotazione di stampo religioso – evoca concetti cardine (il bene, la virtù, la rettitudine) che, in non poche occasioni, rischiano di essere relegati in posizione marginale, quando non addirittura calpestati, da un sistema di regole (e di atteggiamenti) promananti dal detentore di quel che, l’impetuoso e irriverente Trasimaco (per il quale la giustizia non è altro che l’utile del più forte), è il potere costituito. Serpeggia incancellabile l’eterno conflitto tra la giustizia terrena, che si vorrebbe affidata alla posizione formale di una regola, e la giustizia divina. Lo scontro tra Creonte e Antigone, tra il nomos della polis e la probità delle scelte, emblematizza una diarchia di difficile composizione.

La giustizia è chiamata a intervenire tra poteri che interferiscono gli uni con gli altri in una proliferazione  irrazionale delle regole

Il potere costituito è divenuto quanto mai frastagliato, sicché la relativa suddivisione, teorizzata con acume da Montesquieu, l’intento di dar vita a un’organizzazione in cui “nessun cittadino possa temerne un altro”, ha dato vita a una moltiplicazione di relativi centri di imputazione. Essi si ritrovano non di rado in conflitto tra loro. In mancanza di una chiara delimitazione della relativa area di incidenza, basti pensare alle magistrature speciali, alle autorità indipendenti, ai molteplici enti territoriali, alla farraginosa segmentazione delle competenze della pubblica amministrazione (direzioni, dipartimenti, strutture), tutti luoghi in cui si esercitano poteri che si prestano a interferire gli uni con gli altri: una proliferazione esponenziale e irrazionale delle regole. L’area della giurisdizione si è conseguenzialmente, da molti decenni, espansa e continua a svilupparsi a dismisura, finendo a sua volta avviluppata in un ginepraio. Il sistema giuridico e i suoi interpreti finiscono così col rappresentare, con disarmante frequenza, per lo meno nell’immaginario collettivo, un ostacolo.

L’efficienza e la qualità dell’attività giudiziaria finiscono per essere rimesse al senso di responsabilità del magistrato

Un problema di rispetto delle regole, nel quale in definitiva risiede anche la realizzazione della giustizia, concerne prima di tutto intorno a coloro i quali sono chiamati istituzionalmente ad amministrarla. Ci sono canoni comportamentali talvolta qualificabili alla stregua di vero e proprio illecito, in altre occasioni riprovevoli, in quanto gravemente inopportune. L’efficienza e la qualità dell’attività giudiziaria finiscono per essere così rimesse unicamente al senso di responsabilità, che non fa di certo difetto alla gran parte dei magistrati e dei singoli – i quali non poche volte assistono sgomenti e avviliti a quel che intorno a loro si «celebra». È in gioco la credibilità della giustizia, in tutte le sue declinazioni. Indissolubilmente legata all’essere e a una sua non effimera consistenza. Infine l’indagato imputato è chiamato a incarnare – secondo logiche di vera e propria sottomissione “contra voluntatem” – le vesti di vittima nello spettacolo. Con effetti devastanti, soprattutto quando questi possa vantare, in ragione dell’attività svolta e dell’esperienza maturata, stima e reputazione nel contesto di riferimento. La sovraesposizione mediatica decreta – senza che all’orizzonte possa ancora lontanamente profilarsi un provvedimento definitivo di condanna – un’immediata disgregazione del patrimonio morale, che nessun futuro (ed eventuale) provvedimento favorevole avrà mai la forza di ripristinare.

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